Puntata verso sud. Il matrimonio

Infatti i due francesi non si sono svegliati in tempo per prendere il treno delle 7, ma hanno dormito oltre e mi sono sorpreso quando li ho visti uscire dalla camera. Hanno così lasciato l'albergo alla chetichella, senza salutare nessuno perché già ieri sera avevamo preso commiato da tutti.

Parto con Jean-Paul e l'americano per raggiungere a piedi una moschea che Paulo mi aveva consigliato perché è un posto tranquillo e appartato, non al centro dell'attenzione come i monumenti principali. Infatti raggiungiamo un bel cortile ombreggiato da secolari platani sotto cui si apre un tranquillo bacino ottagonale di acqua che riflette la forma degli edifici. Alcuni operai stanno lavorando accanto in uno scavo.

Nel primo pomeriggio prendo commiato da tutti e mi metto in strada verso Shakhrisabs, la città natale di Tamerlano a circa 90 km da Samarcanda. Per arrivarci prendo una mashrutka dal Registan.

Subito mi sento, in quanto straniero, oggetto dell'attenzione dei passeggeri, ma soprattutto di una donna che cerca di parlarmi in continuazione, anche se non ci capiamo. A dire il vero in un certo senso mi torna comodo perché tra il non capire e il fingere di non capire c'è un corto passo e sfrutto la seconda strada quando mi invita a casa sua per mangiare il plov. E accompagna, come fanno tutti, il concetto di mangiare con un gesto che trovo volgare, cioè spinge la mano destra tesa lungo la guancia sinistra come se infilasse qualcosa nella bocca. Vorrà dire solo mangiare? Lo dubito, in questo frangente, vista l'ilarità di tutti.

Sta un poco quieta, ma poi torna all'attacco e mi parla di nuovo, senza che io capisca niente, e mi tocca il braccio. Poco prima di Shakhrisabz scende e mi saluta mandandomi un bacio. Si è rassegnata e io l'ho scampata.

In città fatico a trovare la pensione e un passeggero del pulmino insiste per cercare con me. Mi sento un po' infastidito per questa sua intrusione, ma quando capisco che lo sta facendo per un estremo senso di ospitalità e di responsabilità nei confronti di un forestiero, lo saluto con gratitudine. Mi ha accompagnato fino alla porta del posto che cercavo e ha cercato con me per oltre mezz'ora.

La pensioncina è familiare e ci sono solo tre spagnoli, con cui esco a fare un giro in città, ora che abbiamo l'approvazione dell'anziano padrone di casa che si era tanto preoccupato di mandarli a letto nelle ore più calde del pomeriggio. In città ammiro i resti di una ciclopica costruzione in rovina, sempre sullo stesso stile delle solite, ma particolarmente impressionante per le dimensioni e il fatto di mostrare tutta la sua vetustà. Non ci sono stati per fortuna restauri invasivi in questa che era la più grande costruzione dell'Asia centrale, eretta da Tamerlano.
Mangio in un baretto, mentre gli spagnoli hanno prenotato una cena in casa che dev'essere grandiosa come l'arco della vittoria.

Il matrimonio

13 agosto. Faccio la colazione con Emma, Susana e David e mi invitano ad andare con loro per un'escursione nelle montagne dei dintorni. Con il pulmino che hanno prenotato arriviamo a un luogo di pellegrinaggio, uno dei sette in Uzbekistan che possono sostituire il pellegrinaggio rituale alla Mecca. Qui molta gente è affluita per compiere determinati riti, ma anche per raccogliere l'acqua di una fonte e godere della frescura che danno le fronde.

Noi ci incamminiamo lungo un sentiero verso le montagne e in direzione del confine con il Tajikistan che dista solo una breve distanza. Ma poco dopo la partenza, passiamo accanto a dei giovani che ci segnalano un matrimonio in corso e ci invitano a prendere parte ai festeggiamenti.

Siamo tentati, ma rinviamo a dopo la camminata per guadagnarci la giornata e soprattutto quello che mangeremo. La passeggiata non è particolarmente significativa, il paesaggio è brullo e piuttosto scialbo, ma abbiamo in mente il premio che ci aspetta: la festa nuziale.

Così, dopo esserci rinfrescati e minimamente riassettati in un freddo corso d'acqua, torniamo al punto di passaggio e ci facciamo trascinare da alcuni ragazzotti verso un fresco giardino. Nel bel frutteto sono stati montati diversi tavoli e un centinaio di persone sta seduta intenta a mangiare, parlare e divertirsi, immersa nelle onde sonore di una forte musica che promana da gigantesche casse. Una banda suona e canta melodie tradizionali con arrangiamenti moderni, a tratti molti ballano e affollano lo spazio compreso tra i tavoli e i musici.

Tutti sono in festa e l'unica che non sembra divertirsi è la sposa, con lo sguardo costantemente rivolto verso il basso e il capo protetto da un velo bianco come il suo vestito. Sta seduta accanto al marito su una piattaforma davanti ai tavoli e si inchina lentamente con il busto in modo molto aggraziato per ringraziare quanti le rendono omaggio o le portano qualche banconota passando davanti alla sua postazione. Lo sposo, invece, pur non lasciando il suo posto, sembra più libero, scorre lo sguardo sugli invitati e il suo viso assume espressioni diverse.

Non abbiamo tempo di rifocillarci o di riposarci: appena facciamo la nostra apparizione (molto seguita da tutti gli invitati), ci viene dato un posto alla tavolata degli uomini e ci viene messa tra le mani una coppa piena di vodka. Avrei bisogno di bere acqua e avrei desiderio di mangiare qualcosa per soddisfare la fame, ma no! Subito un uomo viene e mi trascina sulla pista di ballo dove devo subito darmi da fare.

Appena riesco, torno al tavolo e mangio qualcosa dei buoni cibi che sono stati preparati, non senza che la mia coppa di vodka sia costantemente tenuta sotto osservazione e appena si svuota, viene rabboccata. Non ne bevo comunque più di quattro, dato il caldo e la stanchezza.

Periodicamente siamo poi costretti a riprendere le danze con la forza e sulla pista una ragazza agita in una mano una mazzetta di banconote che raccoglie tra gli invitati.

Vengono poi i momenti più ufficiali. Con gli occhi puntati sulla videocamera in azione ci viene chiesto di fare il discorso, che viene tradotto dalla guida in una proporzione di una parola inglese contro 20 in uzbeco. Le poche parole di augurio agli sposi che riusciamo a racimolare nella confusione della situazione diventano nella traduzione discorsetti di tutto rispetto.

La festa è divertente e ci vorrebbero trattenere, anzi invitare in un altro luogo dove la sposa sarà presentata questa sera. Ma gli spagnoli hanno un treno prenotato da Samarcanda domani mattina e io non me la sento di stare da solo senza conoscere la lingua, ho paura di annoiarmi.

Così parto in auto per Samarcanda e riapprodo alla vecchia pensione di Bahodir dove incontro ancora alcuni degli ospiti che avevo conosciuto due giorni fa. A tavola c'è infatti il russo che vive a S. Francisco e nel parlare gesticola in modo troppo ampio, proprio come un americano, oltre che aver naturalmente aver assorbito la cadenza californiana. Ogni tanto trova particolarmente divertente quello che sta dicendo e allora si abbandona a una strana risata che ricorda un verso asinino, protratto oltre la giusta misura.

Conosco poi un canadese pieno di prosopopea che nel parlare, come per caso, fa scivolare l'accenno al fatto che è alpinista ed è venuto da queste parti per lo scopo. Ma lo tradisce un dettaglio di troppo: precisare l'altitudine della vetta che ha scalato, dettaglio che fornisce mentre l'argomento di cui si parla è tutt'altro, e un ghignetto compiaciuto sulle labbra. Beh, giusta fierezza, immagino, quella di essere titolari di un'esperienza simile, ma mi colpisce lo stile roboante della persona.

Non manca di chiedermi la mia provenienza, ma solo per aggiungere qualche commento che lo metta in rilievo. E infatti quando dico che sono italiano, mi informa che ha partecipato a un programma sulla sicurezza e sul terrorismo e si scatena a darmi informazioni che non vorrei proprio avere, soprattutto perché orami ho fatto cenno di alzarmi da tavola e vorrei trovare un po' di tempo per leggere, visto che ho ultimamente trascurato questa occupazione.

Ma come ultima cosa prima di lasciarmi andare, il canadese, a cui manca un dente anteriore, mi chiede il mio nome e io faccio altrettanto. Sento Tiulian e ripeto per accertarmene, senza riflettere al fatto che la pronuncia era viziata dall'anormale interstizio tra i denti. Lui mi corregge, dicendo con più ancora forza Tjulian, ma ora intuisco che dev'essere Julian. Deve essere un membro delle forze dell'ordine o qualcosa di simile, dagli argomenti che ha toccato, ma a questo punto mi guardo bene dal chiederglielo, pur sapendo di deluderlo. Correrei il rischio di essere bersagliato da un altro lungo flusso di conversazione unidirezionale.

Non importa la mia presenza: mentre mi addormento, sento che Julian va avanti a parlare nel cortile con un tono di voce troppo udibile fino a che qualcuno lo invita, ormai nel cuore della notte, a moderarsi. Sono le 2 e sta ancora parlando con un altro anglofono. La mattina lo trovo addormentato nel letto accanto al mio e lo lascio tranquillamente riposare, ma avrei la tentazione di raccontargli qualche cosa io, ora.

Mentre leggo, sento anche due italiani che parlano con il russo e gli danno occasione per lanciarsi in ripetute ragliate che disturbano la mia lettura. Sono i primi e gli unici connazionali che incontro che non siano in gruppi organizzati, ma non mi faccio avanti per conoscerli. Preferisco leggere.