Le Rovine di Takht-e Suleyman

Image28 agosto. Per rivedere i colori magnifici che osservavo ieri sera durante il viaggio, ho deciso di andare a Takht-e-Suleyman nel pomeriggio. Passo la mattina gironzolando per la città e salendo su una collina da cui si ammirano i dilaganti quartieri moderni che hanno relegato in un angolo il nucleo rurale. Al di là delle ultime case si estendono i campi secchi a perdita d'occhio. Poi scendo al parco e mi metto a leggere su una panchina all'ombra. Di rientro verso la pensione, una vespa mi punge sotto un polpastrello del piede. Il dolore è così intenso che devo sedermi e rientrare zoppicando per farmi dare del ghiaccio.

A parte il gonfiore e la pulsazione, tutto sembra sotto controllo, non insorgono effetti strani, perciò alle 3 sono di nuovo in strada, imbarcato su un pulmino che mi lascia in un centro abitato proprio prima del sito archeologico. Alcuni contadini mi invitano a salire sul loro trattore per gli ultimi 2 chilometri. Si sale una rampa di accesso costeggiata da un rivolo che corre nel canale di pietra incrostato di depositi ferruginosi. Passato il portale, c'è una spianata di roccia al cui centro si apre un lago rotondo che occupa l'antico cratere. L'acqua è di un blu intenso, più scura del cielo, e aggiunge un tono alla tavolozza di questo quadro. Lo sguardo spazia sulle montagne e per il cielo, in cui alcune nuvole vaporose annunciano il cambio della stagione. Nell'altra direzione si segue la vallata, sbarrata a un certo punto dal cono vulcanico Zandan-e Suleyman, la prigione di Salomone.

Il mio ingresso non passa inosservato. Ci sono ben pochi visitatori, ma sono l'unico straniero e due ragazzi mi avvicinano subito. Sono curdi di Sanandaj in visita qui con la famiglia e vogliono invitarmi a casa loro. Volentieri accetterei, ma ormai i giorni che mi rimangono non mi permettono di allontanarmi ulteriormente da Tehran. Sarà per un'altra volta.

Arrivo a Zandan-e Suleyman a piedi e mi sporgo nel camino vulcanico, che sprigiona esalazioni sulfuree maleodoranti. Ora devo trovare un passaggio per tornare in città. Sono 40 km e ho appena visto passare il minibus, forse l'ultimo della giornata. Con altri due ragazzi mi metto a fare autostop e troviamo una giovane coppia che ci prende tutti e tre. Anche questo giovane guida a una velocità sfrenata. La moglie non si scompone, ma a un tentato sorpasso del tutto azzardato, gli rivolge un silenzioso sguardo di disapprovazione che lui capta e incassa, anche se continua imperterrito la sua corsa. L'auto di lamiera sottile vibra tutta sotto lo stimolo della velocità eccessiva. Come ieri, non mi resta che cercare un po' di sicurezza aggrappandomi rigidamente alla maniglia, precauzione vana.

All'ora di cena davanti ai fornai si accalca un po' di gente che compra il pane appena sfornato. Ne trovo uno che produce il cosiddetto barbari, che assomiglia a una focaccia, molto migliore rispetto al pane comune fatto di una sfoglia sottile cotta sulla piattaforma girevole il mashini. Ci stanno lavorando quattro panettieri, uno che pesa le pagnotte di pasta fresca lievitata, un altro che le stende. Poi versano una cucchiaiata d'olio su ciascuna, le appiattiscono, ci stampano il segno delle dita per segnarla e infine il fornaio le distende sulla pala dando loro una forma allungata. È una bella scena di lavoro.

ImageVorrei ora una scodella di halim, la deliziosa zuppa di cereali appena salata che può essere mangiata anche dolce. Nel negozietto è ormai finito, ma accanto vendono ash. Il padrone è di Tehran, come rivela il suo accento che trasforma alcune alif in suoni di waw allungate. Mi porge una ciotola di plastica piena di zuppa che condisce accuratamente con cipolle fitte, olio e basilico e una cucchiaiata di panna. Ho già iniziato a gustarla quando parte dall'altoparlante della moschea il segnale dell'azan. Ora tutti possono mangiare.

Nella sala della mehmanpazir alcuni avventori e i figli del padrone stanno guardando senza entusiasmo una partita di calcio. In camera è arrivato un giovane di Tehran diretto a Orumiyeh, dove svolge il servizio militare. Ci presentiamo e apprendo con sorpresa che è un cristiano persiano.

Chiamo il mio amico Shaho per annunciargli il mio prossimo arrivo a Tehran. L'avevo già contattato dall'Italia e mi aveva avvertito di un grande cambiamento da quando ci siamo conosciuti a Tunisi 6 anni fa. Spesse volte durante il viaggio sono tornato alle sue parole per chiedermi che cosa mi aspetti, ma già avevo notato che ora parla correntemente l'inglese, mentre all'epoca la nostra conversazione era esclusivamente in arabo. Ma cos'altro ci sarà?

29 agosto. Dall'alto di una roccia che corona una delle colline sovrastanti l'abitato, osservo la città di Bijar. Credo che, come Takab, sia una città che vede fermarsi o forse passare un turista all'anno e questa volta tocca a me. Il vento soffia forte e sposta nel cielo tante nuvole che si sono aperte un cammino da due giorni, oltrepassando i baluardi dell'Elborz. È il segno della nuova stagione che arriverà a trasformare durante l'inverno queste aridità in campi di neve, i rilievi pelati e bruciati dal calore estivo in distese bianche. Faccio fatica a immaginarlo, ma entrando in città dei segnali stradali indicavano sul fianco della montagna proprio gli impianti sciistici, che a mala pena si notano, visto che non è necessario il disboscamento delle piste.

Verso sera quelle nuvole sono riuscite a far cadere qualche gocciolone sparso, annunciato dal fragore lacerante di un tuono. Non si sono accumulate nel cielo, ma sono solo di passaggio e la gente continua a passeggiare al centro del viale alberato. Rientro in albergo dove la camera è stasera occupata da studenti universitari che stanno preparandosi per gli esami dei prossimi giorni. Sono incuriositi dalla mia presenza e mi rivolgono la parola ma, nonostante uno stia preparandosi alla prova di inglese, la sua conoscenza della lingua è minima. Alla mattina si svegliano ben prima dell'alba per continuare a studiare nel locale del bar accanto.