Mardin, terrazza sulla Mesopotamia

Un minareto di Mardin1 agosto - Scrivo seduto sulla terrazza di un caffè di Mardin, affacciata dall'alto dalla sua incredibile posizione su un meraviglioso spettacolo di campi bruciati dal sole, gialli e ocra, pochissimi verdi, che si stendono verso il vicinissimo confine con la Siria e poi al suo interno. Il panorama e l'atmosfera mi riempiono di euforia. Il sole caldo colora di bellissima luce dorata e piena questo spettacolo di natura e di architettura scolpita nella pietra di molti edifici.

È un posto ammirevole. E pensare che sono arrivato qui con molta incertezza perché non sapevo bene che sistemazione prendere per la notte, dato che avevo solo l'indicazione di tre alberghi di costo ben superiore al mio limite. Invece ho trovato fortunatamente un alberghetto che non è malaccio. Non mi aspettavo ad esempio di potermi fare una doccia normale e ho iniziato a riempire un secchio per lavarmi, accorgendomi dopo che nel soffitto c'era addirittura il becco dell'acqua.

Stamattina ho girato per Diarbakir tra moschee, stradine, mercato e anche alcune chiese, di cui mi ha colpito un antico arazzo steso su una specie di baldacchino di legno vecchissimo con una scena di crocifissione. Mi sono poi diretto all'otogar ma non era quella giusta per Mardin; ho dovuto prendere un dolmus che mi ha riportato alla fermata corretta. Purtroppo mi sono accorto di aver preso con me la chiave dell'albergo e ho cercato disperatamente alla stazione una buon'anima che volesse farmi il piacere di riportarla, ma non ho trovato nessun volonteroso nel poco tempo a disposizione prima di una partenza piuttosto precipitata.

Qui a Mardin ci sono turchi, arabi e curdi. Con la gente, nei negozi si può parlare arabo e si viene capiti o addirittura si ottiene una risposta in questa lingua, anche se l'accento tende spesso a quello mesopotamico con la ch invece della kaf. Inoltre sto in questi giorni riconoscendo alcune parole turche presenti nel dialetti arabi levantini o viceversa e ho scoperto tra l'altro che anche in turco Damasco si dice Sham, parola bellissima ed evocativa con cui i siriani chiamano nella lingua popolare la loro capitale.

Mi beo a lungo nella delizia di questo sole e di questa vista. È meraviglioso oziare qui, osservando da questa terrazza la gente seduta, la divertente piroetta che compiono gli uccelli, forse per gioco, che volano controvento e improvvisamente invertono rotta con una capriola nell'aria. Mi decido infine a un giro di esplorazione che mi porta a vedere un'altra madrasa e a scendere nella strada inferiore del paese da dove la vista sulla città antica e sulla fortezza mi fanno capire le vere dimensioni dell'abitato.

Tornando verso l'albergo a notte ormai caduta incontro i due polacchi di ieri che viaggiano in autostop. Esco a mangiare un buon piatto di melanzane farcite, stavolta vere, poi mi fumo un narghilè sulla terrazza leggendo altre 50 pagine dell'avvincente The Da Vinci code. Nella notte, le luci di pochi abitati sparsi nelle distese pianure mesopotamiche alla base delle alture su cui mi trovo brillano con una nitidezza che mi richiama la purezza dell'aria secca di Gerusalemme l'estate scorsa. Mi dicono che le luci più lontane sono di Aamuda, già in Siria e dietro di esse si trova Qamishle.

2 agosto - Mi sveglio presto. Ho lasciato aperte le due finestre e l'aria calda mi ha tenuto accarezzato con soffi delicati durante tutta la notte, anche se nelle prime ore del mattino mi sono coperto col lenzuolo per riparami dal venticello più fresco. La chiamata alla preghiera dell'alba è stata come uno schianto perché è entrata prorompente da un altoparlante vicino con un iniziale scricchiolio di nastro rovinato che non ho avuto il tempo di riconoscere nel torpore del sonno, prima che si levasse la voce distesa. Mi sono accorto che la formula del mattino dice che "la preghiera è meglio del sonno" ma ho pensato che chi canta potrebbe farsi gli affari suoi.

Ho fatto colazione comprandomi un panino dolce e baklava e bevendomi un tè e un caffè in un bel locale popolare. Poi ho cercato di visitare la chiesa dei 40 Martiri, ma era ancora chiusa. Alcuni ragazzi di una gioielleria, che sapevo essere di Deyr al-Zaafaran, mi consigliano di prendere il dolmus fino al capolinea e da lì camminare i 4 km rimanenti fino al monastero. Sono duri sotto il sole cocente, ma cambiando i sandali con  scarpe chiuse ce la faccio.

Visito il monastero e un catecumeno mi fa da guida. Belle le immagini e i simboli di un cristianesimo antichissimo ma ancora vivo. Qui sono monofisiti, siriaci ortodossi, e il loro Patriarcato è a Damasco. Ripercorro i 4 km a piedi fino all'autobus. Mi faccio lasciare alla chiesa dei 40 martiri dove è in visita un gruppo di giovani della Assyrian Youth of Sweden, siriaci della diaspora che ha ormai prosciugato la popolazione cristiana di queste parti. Anche questa chiesa è degna di tutta l'attenzione che le ho riservato.

Parto per Mediat. All'arrivo ho bisogno di ristorarmi e mi siedo in un ristorante per ordinare frutta. Nelle strade un bambino, Ibrahim, si offre tacitamente di portarmi in giro per la città e gironzolo per i vicoli, giungendo infine a un palazzo storico restaurato dalla cui terrazza si abbraccia tutto l'abitato. Con un paio di monete il bambino rimane contentissimo e mi accompagna fino alla fermata dei bus per Hasankeyf. C'è un'ora di attesa, mi fa segno l'autista, e mi invita a sedermi con lui e un suo amico per bere un tè. Loro giocano a carte e io li osservo; poi si interessano al mio itinerario di viaggio, dandomi consigli in curdo, come se capissi tutto. È ora di partire: l'autista mi rifila nel palmo una manciatina di semi da sgranocchiare e a bordo si va. La strada percorre belle vallate riarse ma verdi in prossimità dell'acqua che scorre in uno scarso rigagnolo sul fondo.

Hasankeyf sul fiume TigriArrivo a Hasankeyf e prendo una stanza nel motel. Nell'esplorazione della città mi dirigo verso le rovine imponenti dell'antico ponte, poi sul lato opposto del fiume Tigri dove ho scorto altri resti da visitare. Infatti vedo la fortezza, dal cui alto si abbraccia il grandioso panorama sulla valle. Al tramonto i colori si vestono di una luce spettacolare. Tre giovani mi avvicinano, due ragazzi e una ragazza. Sono di Medyat e parlano arabo, così ci intratteniamo un po'.

Scendo all'albergo ma mi sento indisposto. Ho sempre bevuto l'acqua del rubinetto o delle fontane ma ho sentito che non sempre è pura. Esco a mangiare in uno dei locali sulla strada e qui una signora italiana, Mariangiola, mi offre gentilmente un rimedio cinese. Faccio la conoscenza del suo accompagnatore, un giovane siriano di Raqqa, con cui parlo a lungo, raggiunti poi dal padrone del ristorante.

Prima di ritirarmi mi siedo alla porta dell'albergo con i ragazzi, uno dei quali parla un arabo alquanto distante da quello siriano, non molto puro, frammisto di turco o curdo, ma comunque un modo per comunicare. Preferisco intrattenermi qui piuttosto che ritirarmi nella mia stanza che è un forno e non ha finestre. Ma almeno mi hanno dato un ventilatore per muovere l'aria.