Arrivo a Casablanca

23 aprile. Una luce vivissima splende nel cielo di Casablanca il pomeriggio del mio arrivo. Dal treno che mi porta dall'aeroporto verso la città, i campi sembrano già secchi e maturi, ed è solo primavera.

Nella carrozza sono mischiate persone arrivate con diversi voli e ora dirette in città: alcuni devono essere residenti all'estero, come rivela il loro abbigliamento alla moda europea e i modi da gente arrivata. Due signore anziane confabulano intabarrate in caffettani di foggia che non si distingue per finezza. Marcatissimi di kahl, gli occhi di una giovane studentessa spiccano incorniciati da un velo rosso fuoco adorno di lustrini.

Il signore seduto davanti a me si è messo a dare prolisse spiegazioni alle due anziane alternando arabo e francese nelle parole o addirittura nelle frasi e dilungandosi in dettagli su tutte le fermate del treno. Con questo sottofondo, il mio sguardo ritorna alla studentessa e noto che il vistosissimo colore del velo è ripreso dallo spolverino che ricade su una tuta bianca attillata. E' un monumento alla pacchianeria ma ha pregio di non violare, almeno formalmente, i canoni del costume islamico.

Dato che mi sembrava così esperto di treni, ne ho approfittato anch'io del signore con i baffetti. Mi ha consigliato di cambiare per arrivare direttamente al porto, tuttavia per un attimo ho perso la coincidenza e mi è toccato aspettare mezz'ora. Nel frattempo mi metto in contatto con un italiano conosciuto a Tunisi che lavora qui, ma al telefono non sembra molto entusiasta e dice di essere impegnato stasera; mi pento del mio slancio e sono ben contento di ritrovare la libertà del viaggio. Vago per le strade della vecchia medina alla ricerca di un albergo, ma vengo attratto da una vetrina in cui sono esposte focaccine di vari tipi. Mi siedo all'interno e ne ordino una che pare pasta di pane schiacciata al burro (il cosiddetto melwi): la mangio accompagnata da un dolcissimo tè alla menta.

Allo schermo della tele, senza suono, passano le immagini del re in visita a una fiera e noi spettatori dobbiamo sorbirci un'anacronistica celebrazione della monarchia. Il sovrano incede con passo misurato sul tappeto rosso lungo cui si snoda la fila di alti dignitari. Alcuni gli stringono la mano, con leggera riverenza; altri si abbassano con un marcato inchino del busto, poi ci sono quelli che si piegano in due di scatto per baciare la mano reale e portarla alla loro fronte come fosse una reliquia sacra. La cerimonia è la stessa di sempre, ma ora il re è accompagnato dal figlioletto, anche lui elegantemente vestito di un minuscolo completo grigio e pronto a essere in futuro al centro delle servili attenzioni dei sudditi.

Accanto a me, un giovane estrae dalla tasca un flaconcino e versa una striscia di polvere marrone sul dorso della mano per aspirarla da una e dall'altra narice, come fosse una pista cocaina. Ma è tabacco macinato, che alcune persone addizionano ad altri eccitanti o a sostanze proibite, largamente utilizzate dal popolo. Intanto, fuori, le strade della medina sono ormai illuminate dalla luce artificiale giallastra ma la gente, soprattutto i giovani, continuano ad animarle di vita e di giochi.

Un ospite di lunga durata dell'albergo vuole interrompere la noia della sua serata lontano da casa intavolando una conversazione con me. Mi intrattengo per cortesia, ma sopraffatto dalla stanchezza mi rendo presto conto che le sue chiacchiere sono quelle di un venditore che ascolta sé stesso con compiacimento e il flusso del dialogo va in un senso unico. Per di più l'infiorettare ogni frase con l'appellativo camarade mi suona davvero strano e mi innervosisce.