Kayar

Con un lento spostamento di poche decine di chilometri, riesco a sottrarmi poco a poco dalla confusione urbana di Dakar per raggiungere la Grande Côte e in particolare il villaggio di Kayar, il più grande porto di pesca del paese.

L'intensa attività di questo centro è testimonianza della vitalità della pesca e della sua importanza economica. Qui assisto a scene che mi portano per la prima volta nel vivo del settore, ma per scoprire implicazioni e problemi cammin facendo parlerò con la gente di altre località per raccogliere informazioni e farmi delle idee.

 

Di primo acchito mi trovo immerso in un indaffarato mercato composto da una serie di catapecchie malconce e degradate, un posto davvero poco invitante. Sono esposti i prodotti del mare e della terra e mi richiama il ricordo di poco fa, quando un tale è salito sul pulmino con due ceste di menta e di erba cipollina che hanno aromatizzato l'aria. Ma qui l'odore che domina è quello di pesce e di mare che, unito alla scabrosità del paesaggio abitato, esprime con immediata potenza tutta la rudezza della vita dei pescatori.

Sono accostato dai sedicenti membri del comitato d'accoglienza, in pratica sedicenti guide che si impongono ai visitatori con metodo aggressivo e insistente, ma trovano in me un osso duro che le liquida in modo deciso. Senza guida affronto la spiaggia al di là del mercato.

Anche questa è affollata da molta gente che lavora o aspetta. Quello che balza all'occhio è la bellezza della carnagione nera che i vestiti variopinti, soprattutto delle donne, fa risaltare in tutto il suo splendore. Di contrappunto, anche i bambini sono attratti dalla mia diversità e mi guardano incuriositi, ma nel loro interesse è misto un senso di timore e spesso una carezza li spaventa o li fa rompere in un pianto di terrore!

In un'atmosfera lattiginosa carica di salsedine atlantica – o forse è fumo? – e sotto un diafano velo di nubi che filtra appena il sole, una serie di piroghe colorate di diverse dimensioni si allinea sulla sabbia. Le più grosse sono evidentemente destinate ad accogliere un equipaggio numeroso, oltre alla ventina di pescatori. Con duro sforzo di braccia, un gruppo di uomini fa scivolare un'enorme imbarcazione su tronchi di palma per portarla in acqua. Questo spettacolo di gente e movimento, ma anche di colori e suoni, mi trascina impetuosamente nel vortice della pesca senegalese.

Ma ecco che approdano due piroghe di grossa stazza e si scatena un turbinio di gente che accorre per scaricare il pesce. I calessi si spingono nelle acque basse per caricarsi di reti o altro materiale da trasportare; i pescatori, ancora avvolti in cerate gialle o verdi, fanno la spola tra la barca e la riva, portando sulla testa contenitori zeppi di pesci luccicanti che svuotano sulla sabbia dove si sta formando un incredibile mucchio d'argento.

Lungo il percorso inevitabilmente qualche pesce scivola dalla cesta traboccante e allora subito uno dei ragazzini in agguato ci piomba sopra e se ne appropria per inserirlo nel piccolo bottino degli altri già raccolti. Un bimbo ha già infilato ogni dito della sua manina in altrettante bocche di pesci che gli prolungano l'arto in estremità bestiali. Un altro più organizzato infila le teste su un filo da cui lascia pendere i pesci.

La scena è vivissima, nell’agitazione e nella partecipazione di tante persone che, se non sono al lavoro, stanno sulla riva vocianti e pronte a intervenire. Ma se Kayar è soprattutto un porto di pesca, si cela qui e altrove su questa costa anche un'attività clandestina, il traffico di migranti che tentano l'approdo in Europa e su questo triste capitolo avrò da sentire delle storie davvero impressionanti.