Le grotte di Ellora

ImageSulla strada per Ellora, a cui vado con un rickshaw noleggiato, si incontra Daulatabad, una poderosa fortezza in rovina appollaiata sulla cima di un colle, che fu un'importante base del sultanato di Delhi nelle sue operazioni di conquista verso sud. Così, nel 1327, Muhammad bin Tughluq ne fece la sua capitale, ribattezzata in Daulatabad, e costrinse l'intera popolazione di Delhi a marce forzate per popolarla. Ma l'assurda avventura non dura molto. Dopo due anni, viene abbandonata a causa della mancanza d'acqua.

I profondi fossati di difesa sono scavati nella roccia e un elegante minareto rosso si staglia contro le rovine di pietra scura. Oltre, la campagna e poi i monti che chiudono l'orizzonte. Antichi passaggi segreti invasi da pipistrelli che stridono nel buio possono essere percorsi per arrivare alla cima del colle.

Poi si arriva a Ellora. Il primo tempio che troneggia nel bel mezzo del balzo roccioso è una massiccia costruzione ricavata dalla roccia stessa in cui è stato scavato. Un largo passaggio gira intorno alla costruzione centrale, la quale non è altro che il materiale rimasto al suo posto; insomma, il tempio non è stato costruito con pietre riportate, ma sottraendo una specie di negativo della sua forma.

Al di là di questo capolavoro di arte e di tecnica, le grotte che si susseguono lungo la parete sono di dimensioni più ridotte. Appartengono ai vari periodi in cui Ellora ha visto attività monastica sotto le tre grandi religioni dell'Induismo, del Buddismo e del Jainismo, tra il V e il X sec. d.C.

Il sole è intenso e aggiunge un po' di fatica a questo percorso senza ombra. Potrebbe essere l'ambientazione di A Passage to India (in realtà sono le grotte di Barabar) e mi immagino la scena dello svenimento, il dramma del dialogo impossibile, dell'equivoco irrimediabile, del sospetto indimostrabile, del discredito infamante e delle convenzioni rotte… il dramma della comunicazione umana interrotta e della solitudine.

Quando si entra nelle cavità della roccia, spazi geometrici ben squadrati dagli scalpellini artisti, si trova sollievo dal calore. In effetti è anche una tregua dalla massa di visitatori che si accalca intorno al tempio Kailashi, ma non si spinge molto oltre verso gli altri siti.

Di grotta in grotta passo ad ammirare le forme delle colonne scolpite, le raffigurazione degli dei, i giochi di ombre e di luci che si muovono tra le file di pilastri illuminati dall'esterno, così che il lato interno presenta una faccia buia, mentre il fusto getta un'ombra abbozzata dietro di sé. Alcune grotte avevano la funzione di tempio, altre di monastero, altre ancora svolgevano funzioni più pratiche di magazzino o di refettorio.

ImageIn una grotta tempio coronata da una volta a botte decorata a costoloni, vedo entrare un fedele che si piazza di fronte alla suggestiva statua di un Budda in meditazione troneggiante nel mezzo dello spazio oblungo. All'esterno un uomo con una lastra di metallo dirige i raggi del sole sul simulacro illuminandolo di luce calda, rispetto a quella più bluastra dell'interno. Il fedele intona un inno che risuona in questo spazio di pietra. I pochi visitatori presenti non gli fanno molto caso; io invece resto molto colpito dal canto che riempie la grotta della sua forte devozione.

Altre grotte si trovano raggruppate in un luogo distante e si raggiungono con il rickshaw. Ce ne sono di jainiste e indù. Le prime si distinguono per la raffigurazione di alcuni dei 24 asceti illuminati, detti tirthankaras. Immagini maschili nude, piuttosto rigide, rimandano al lontano passato di questa grande religione della non violenza.

Di ritorno ad Aurangabad, non mi ritengo soddisfatto senza andare a vedere la Panchakki, l'antico mulino ad acqua. Entrando nel complesso, che è un'opera islamica offerta alla comunità, bene inalienabile di manomorta, cosiddetto waqf, mi sento deluso. Non vedo la ruota, il balcone si affaccia su un fossato ingombro di rifiuti tra cui si fa strada un orribile rigagnolo, e al di là del ponte che lo attraversa si vede un bel portale in rovina, ma tutt'intorno la città è uno sfacelo.

Tuttavia, soffermandomi accanto al bel bacino d'acqua, apprezzo sempre più l'oasi in cui mi trovo. È un'opera antica di qualche centinaia d'anni dove molti si rifugiano per un po' di frescura e di tranquillità. Sopra la vasca si innalza un gigantesco baniano secolare; accanto alla vasca ragazze nascoste in misteriosi veli neri e alcune famiglie richiamano il grande contributo che ha ricevuto l'India dalla civiltà islamica, ancor oggi una componente importante della sua variegata società.

ImageIl complesso si estende con altre belle vasche, una moschea e un mausoleo tra cui gironzolo pacifico, con la consapevolezza ora di trovarmi in un luogo privilegiato della città, costruito con grande senso civico e un intento non solo di utilità, ma anche di abbellimento. Cose del passato, ma purtroppo non dell'India di oggi.

Dentro il mausoleo si trova il tumulo del santo sufi Baba Shah Muzaffar, consigliere spirituale dell'imperatore mogul Aurangzeb nel XVII sec. Un imam distribuisce benedizioni brandendo un fascio di piume di pavone con cui sfiora la tomba e poi trasferisce la grazia alla mia spalla e al capo. Mi spiega che la cupola tutta traforata riceve aria e luce, ma non lascia mai entrare acqua piovana.

Il pullman parte alle 23.15 alla volta di Sholapur con un viaggio di 7 ore. Prendo posto nello stretto spazio della cuccetta in cui dovrò fare stare anche lo zainetto con gli articoli di valore. Mi scarico dei liquidi in quello che un viaggiatore mi indica come “toilette”, in realtà nient'altro che un campo sterrato di fronte alla fermata.