I dintorni di Bukhara

Uzbekistan0216Stamattina ho sentito i miei due compagni di stanza svegliarsi presto per prendere il treno delle 8 verso Samarcanda. Non ci siamo salutati propriamente, ma sono d'accordo con Guillaume che ci rivedremo a Tashkent per andare alcuni giorni nella zona di Fergana.

Per quanto mi riguarda, cambierò albergo stanotte perché sono rimasto da solo in una camera enorme. A questo penserò più avanti, però, perché innanzitutto ho in progetto di visitare alcuni posti al di fuori della città, incominciando dal mausoleo di Baha' al-Din Naqshbandi, fondatore di una scuola sufistica la cui importanza arriva fino al Maghreb.

 

Con un pulmino arrivo a questo complesso, per la verità non impressionante dal punto di vista architettonico e nemmeno per l'aspetto antico, essendo stato restaurato in modo piuttosto artificiale. Ci sono però numerosi pellegrini che accedono al santuario e questi conferiscono al posto un motivo di grande interesse. Spesso recitano una preghiera sotto la guida di un imam che, seduto su una panca presso l'ingresso, declama una salmodia di brani coranici mentre i fedeli seguono con le palme rivolte verso l'alto, prima di compiere il gesto finale che consiste nel passarsele sul viso come per detergerlo di un invisibile strato di impurità.

Più avanti si passa attraverso un ampio cortile bordato dall'aiwan, la tettoia riccamente decorata. Da un'impalcatura, un pittore mi guarda compiaciuto mentre lo fotografo con il pennello in mano ridare una mano di brillantezza ai colori smunti. In questo cortile si trova il monumento funebre del sufi, ma la gente va oltre per compiere il gesto rituale che si ispira a fede popolare e irrazionali pratiche propiziatorie al tempo stesso.

Infatti, all'estremo del recinto si trova un enorme tronco contorto attorno al quale la gente forma piccole file che si snodano tutt'intorno e a un certo punto passano al di sotto dello stesso, cosa che per i più anziani comporta un certo sforzo.

Ritornando sui miei passi osservo gli scalpellini intenti a sbalzare la scritta su una lapide funebre. Il calligrafo ha precedentemente tracciato con un pennello nero eleganti lettere arabe che recitano tawakkaltu 'ala al-hayy l-ladhi la yamut, mi sono affidato al Vivente che non muore. Ora questi altri artigiani stanno rimuovendo uno strato di pietra tutt'intorno alle parole, in modo che la scritta rimanga in rilievo.

Costoro non parlano arabo, ma all'interno della moschea trovo un giovane imam in attesa di fedeli che gli facciano recitare qualche preghiera. Dato che legge da un Corano in arabo, suppongo che dovrebbe anche parlarlo e infatti scambio con lui qualche frase. Ma l'arabo è per lui una lingua di preghiera più che di conversazione e cerca le parole scegliendone del registro religioso.

Lascio il mausoleo e con un altro mezzo di trasporto raggiungo il palazzo dell'ultimo emiro di Bukhara. Questa costruzione si trova in un bel parco che fende in parte il calore, ora molto intenso. Si tratta di una miscela di stili vari, in cui mi sembra di vedere anche qualcosa di russo in una terra che di russo ha avuto solo i dominatori e da loro ha ricevuto forti influenze culturali. In una seconda costruzione che è l'harem sono esposti magnifici tessuti ricamati.

Mi avvio sulla strada del ritorno, ma prima di riprendere la mashrutka, noto un negozietto di barbiere dove mi faccio tagliare barba e capelli per un prezzo che non è quello che i più scaltri di Bukhara chiedono solo ai turisti. Poi, con l'aspetto rinnovato, mi avvio verso la città.

Il pulmino mi lascia a un incrocio e un giovane insegnante di informatica mi indica la strada per raggiungere la città vecchia. Devo però passare attraverso ampie zone di impronta sovietica dove i viali sembrano autostrade deserte; le sparse costruzioni, alcune di grandi dimensioni, sono palazzi abbandonati di un centro direzionale caduto in disuso; le piazze, che dovevano dare respiro al tessuto urbano, sono rimaste senza manutenzione da anni e si sono riempite di erbacce mentre la loro pavimentazione è ormai sconnessa: danno piuttosto l'impressione di una città abbandonata e mai terminata, con assurdi spazi vuoti lasciati tra i suoi componenti.