Isfahan, la metà del mondo

ImageA Isfahan vado con un savari che in meno di 2 ore mi lascia alla stazione degli autobus. Da qui raggiungo l'ostello con un autobus di città moderno e pulito. Due porte consentono l'accesso a bordo, ma quella davanti deve essere usata solo dagli uomini, mentre quella di dietro solo dalle donne. All'interno, lo spazio è diviso in modo ancor più evidente in due parti non comunicanti, separate da una barriera. Guardando verso il fondo, un'inquietante gruppo di macchie oscure sono le donne, avvolte spesso nel leggero e nerissimo chador.

Il biglietto è una specie di francobollo che si compra a terra e si deve consegnare all'autista nel lasciare il mezzo. Le donne, che escono dalla loro porta di dietro, devono riconsegnare il francobollo facendolo cadere in un secchiello subito all'interno della porta anteriore. Questo sistema evita loro di salire i gradini, ma soprattutto il disdicevole contatto con la mano dell'autista. Come conseguenza di questo sistema, le fermate sono leggermente lunghe.

Noto ancora una volta che la gente non perde occasione di accamparsi ovunque per fare picnic (i parchi sono puliti e senza cani). Ogni aiola è un posto buono, anche se si trova al lato dei grandi viali trafficati della città. Ripensando al mio primo picnic iraniano nell'aiola di Qom, capisco che non era niente di straordinario, ma un costume nazionale.

Prendo un letto in camerata con due giapponesi e un olandese, poi mi dirigo subito verso la piazza Naqsh-e Jahan, (ovvero l'immagine del mondo), ribattezzata piazza dell'Imam (Khomeini) dopo la sua morte. I monumenti sono spettacolari, la sua ampiezza grandiosa. Prendo un tè sulla terrazza mentre il sole cala e la vita cittadina moderna si intreccia con quella dello splendido passato safavide. I veicoli attraversano il lato corto dello smisurato rettangolo, ma non distruggono questo equilibrio fatto di mirabili forme che attraggono lo sguardo come il magnete attira il ferro. Anche i colori esprimono la raffinatissima ricerca dell'eleganza sublime che si eleva in una creazione artistica mirabile, paragonabile a quella di un tappeto persiano.

ImageDopo cena scovo una zurkhane che apre le porte per mostrare al pubblico gli esercizi ginnici dei culturisti, ritmati dall'enorme tamburo chiamato zarb. Il corpulento maestro della casa sta seduto in posizione rialzata rispetto all'ottagono incassato in cui si dispongono i ginnasti. Ha un piglio autoritario e non è il tipo di persona che sarebbe prudente contrariare.

Dal suo pulpito ritma il tempo con la percussione e una campana, declama poesie e pronuncia formule a cui tutti rispondono in coro come fanno gli sciiti nelle moschee, quasi fosse il celebrante di una vera e propria funzione religiosa.

Con questo accompagnamento i ragazzi iniziano l'esibizione, che sa più di allenamento, facendo roteare pesanti birilli di legno intorno alle spalle, poi lanciandosi in un'infinita serie di flessioni sulle braccia. Non sono particolarmente robusti o gonfi, ma devono essere senz'altro forti. Un giovane però è visibilmente sfinito da questa prova e non riesce a tenere il ritmo massacrante.

C'è poi la parte finale di giravolte che ricorda la danza dei dervisci e rimanda ancora una volta alla dimensione mistica di questa pratica. Alcuni sono degli assi e riescono a roteare per lunghi minuti a una velocità vorticosa; altri stanno solo imparando il numero e sono più impacciati. Il complesso è un misto di ginnastica e rituale, anche nella fase finale in cui gli atleti ringraziano il pubblico e i compagni. I più anziani del gruppo ricevono dal maestro l'invito a prendere la parola e rivolgono con disinvoltura eloquenti parole di apprezzamento e ringraziamento agli spettatori e ai compagni.

Torno all'ostello per magiare in cortile yogurt e noci con il pane che ho comprato. Faccio la conoscenza di una coppia francese, oltre ai riservati giapponesi della mia camera.