Ultimo passaggio a Tehran

Image30 agosto. Da Bijar raggiungo Zanjan e da qui mi imbarco per Tehran. È il terzo passaggio per la capitale, ma questa volta sarà speciale perché incontrerò il mio amico. Lo chiamo e mi dà appuntamento. Sotto la torre Azadi al centro della grande piazza in mezzo a giardini molto curati, Shaho viene a prendermi con la sua fidanzata Mahsa.

Sulla strada di casa, parliamo di tante cose che sono successe dal tempo che non ci vediamo. Arrivati, nonostante l'ora avanzata e il ramazan (che però loro non osservano), consumiamo un pasto di panini imbottiti con fette di un salume scialbo e verdura fresca. Più tardi si sveglia anche la sorella Paisa, che lei invece sta digiunando scrupolosamente.

Sono contento di avere coronato il viaggio con questo incontro. Pian piano capisco quale è stato il grande cambiamento di Shaho. Innanzitutto non studia più arabo, motivo ci aveva fatto incontrare all'università di Tunisi, ma si dedica alla filosofia. Ha anche l'aspetto di un vero filosofo: si direbbe un Aristotele con la barba e i capelli scarmigliati e lo sguardo riflessivo. Ma la sua vera svolta è stato il distacco dalla religione, una scelta coraggiosa e originale se penso che la sua famiglia sunnita è religiosa e conservatrice. Quando l'avevo conosciuto a Tunisi era devoto alla dottrina e ligio agli insegnamenti. In più di un'occasione aveva svolto il ruolo di apologo dell'islam nei miei confronti anche quando sotto sotto sapeva di giustificare qualcosa che lui stesso trovava imbarazzante. Ricordo quella volta che stavamo entrando in una moschea e io fui scacciato sgarbatamente da un fedele perché l'ingresso ai non musulmani era vietato e lui era rimasto male davanti a questa scena che io avevo per altro incassato senza problemi. Ora la religione è per lui niente più di una favola e per di più poco plausibile. Sta cercando altre verità nella mente, nel pensiero, nel mondo delle idee dove è convinto di trovare una strada.

Mahsa è una giovane liberale. Mi ha teso la mano quando siamo stati presentati e io ho incontrato la sua stringendola, un po' timoroso di questa novità. Porta il velo obbligatorio sui capelli, ma non tarda a confessarmi che odia questa imposizione. Appena entra in casa, infatti, se lo spoglia.

Invece la sorella Paisa pare essere l'esatto opposto. Indossa una casacca verde che le copre castamente i fianchi e un velo di colore abbinato che le fascia il viso. Non se lo toglie nemmeno in casa per via della mia presenza. Ci salutiamo a distanza, senza contatto, proprio come avviene poi con la sua amica Zahra che viene a trovarci la sera e rimane in disparte ascoltando interessata la discussione che Paisa è sempre in grado di stimolare. Infatti mi rivolge con spirito di sana curiosità una caterva di domande sul mio paese, su quell'Europa che deve essere a suoi occhi impregnata di una cultura antitetica alla sua, ma tremendamente interessante da scoprire come per me lo è l'Iran - con la differenza che io ho potuto visitare liberamente questo paese, ma lei, per diversi motivi, non potrà forse mai vedere di persona quel continente irraggiungibile.

L'Europa è per Paisa un luogo che è fonte di vituperio e ammirazione; un mondo misterioso di cui ha sentito tanto parlare e che io ora rappresento in carne ed ossa. Sono il ponte che permette lo scambio e ne sento tutto la responsabilità, nel rispondere a tanti interrogativi che mi rivolge, per niente banali. Devo riflettere per non tranciare giudizi assoluti e generalizzati. Tutto ha sfumature e variazioni; non tutti la pensano come me e si comportano nello stesso modo, in Europa come altrove.

Proprio su questo pensiero ritorno con la mente a quello scontro viscerale e inespresso che ho avvertito nei confronti di quegli europei nordici a Mashhad. Mi erano sembrati così supponenti e altezzosi rispetto al mio amato Paese. Ora, quindi, non ho né il titolo né il desiderio di parlare in nome dell'Europa, la quale forse non esiste nemmeno. Posso solo testimoniare su come io vivo e vedo la mia vita nella mia Italia, limitato per di più dalle esperienze che mi hanno fatto prendere un passo di distanza dal percorso di molti.

Paisa è intelligente e curiosa, come gli altri miei amici. Il loro interesse a conoscere e discutere criticamente le idee che hanno sulla mia civiltà mi riempiono di ammirazione. Shaho, che studia filosofia e legge molto, ha molte informazioni, ma mi ascolta parlare, misura quello che sa su quello che dico. Ne escono dibattiti interessanti e mi accorgo che ci soffermiamo su una realtà complessa e non facile da comprendere, nemmeno da parte mia.

Paisa è conservatrice ed è un tesoro. Anche a mezzogiorno, quando lei digiuna, ci prepara da mangiare senza peraltro poter assaggiare se il sale e i condimenti sono al punto giusto e si scusa con noi. Ama molto la sua cultura curda ed è legata alle tradizioni popolari. Mi mostra con fierezza dei filmati di danze halperke e registrazioni di musica che non sembrano avere mai termine. Nonostante mi indichi i costumi come tradizionali, stento a vedere in quei coloracci violenti il retaggio del passato, ma fingo di gradire. 

La casa di Shaho è centrale vicino all'università, a metà strada tra i quartieri meridionali, poveri e popolari e quelli settentrionali, così ricchi ed esterofili che sembrano tutto fuorchè nel Medio Oriente. Il secondo giorno visitiamo il palazzo del Golestan, andiamo al bazar e ci muoviamo in metropolitana. Mi piacerebbe vedere altre parti della città o piuttosto viverci più a lungo perché non ci sono vere e proprie visite da compiere, ma piuttosto situazioni da provare. Ma il tempo è poco.

Per quello che vedo, la città sembra piuttosto un enorme paesone, dove non si respira aria di indifferenza, ma regna un clima di amichevole giovialità. Il viale Vali-l Asr che attraversa la metropoli da nord a sud dà un'idea delle sue dimensioni, con i suoi oltre 20 km di lunghezza. I 15 milioni di abitanti sparsi su questa area gigantesca, all'ombra dei 5610 m del monte Damavand che rimane occultato in una cappa di smog, respirano un'aria orribilmente inquinata, vivono in quartieri giustapposti che sembrano cittadine autonome con i loro negozietti strapieni di tutto e le loro case non troppo palazzoni.

ImageOsservo come la gente cammina per strada, a un ritmo di passeggiata. Ondeggiano sul marciapiedi cosicché se hai fretta o solo segui la tua andatura naturale, ovviamente più veloce, ti trovi a dover fare uno zigzag tra ostacoli mobili.

Chi viaggia in metropolitana sembra come se andasse in una gita di piacere. Chiedono continuamente ai vicini informazioni sul percorso e addirittura sulla banchina mi sono sentito interpellato sulla direzione del treno. Nessuno si prende la briga di leggere i chiari cartelli indicatori, ma tutti rispondono con pazienza e spririto di aiuto. Non sembra una città disumana e indifferente dove chiedere è un disonore. Anche Shaho non passa due minuti per strada senza chiedere a destra e a sinistra le indicazioni più ovvie. Personalmente non mi sognerei mai di chiedere se la risposta è evidente o a portata di un piccolo sforzo da parte mia.

La metropolitana allevia la congestione sulla superficie, ma non è esente dagli stessi problemi di affollamento. Ma anche nella calca delle ore di punta in cui la gente sta stipata nelle carrozze, si trova qualcuno che riesce a trovare la situazione divertente e sdrammatizza con risa contagiose, come fosse un parco giochi. Sulle scale mobili non manca qualcuno che si blocca davanti al prodigio dei gradini che scivolano sotto i piedi e non raccoglie il coraggio sufficiente per affrontarli.

Questa è la Tehran che incontro, al termine di un percorso che, dopo essere iniziato nella storia, si chiude sul presente. E' stato un paese entusiasmante. L'ho spogliato del suo chador nero che me lo rendeva invisibile e sotto ho trovato il grande Iran di oggi, erede della Persia di ieri.