Ancora a Isfahan

A parte l'architettura religiosa e pubblica, Isfahan conserva antichi palazzi immersi in giardini persiani dove le fitte fronde filtrano il sole e creano una meravigliosa freschezza. Percorrendo l'arteria Chahar Bagh, mi discosto su un lato per trovare un bellissimo parco che diversi giardinieri stanno amorevolmente curando, annaffiando le aiole e inondando i canali ai lati dei prati perché l'acqua raggiunga tutte le piante collegate dal loro corso. Nella fontana giocano spruzzi d'acqua contro il giovane sole di questa mattina. Oggi, che ho lasciato il letto dell'albergo perché partirò con il pulman notturno, questo spazio mi tornerà comodo per passarci le ore più calde del primo pomeriggio.

I palazzi sono decorati con interessanti dipinti, rari per l'arte islamica, che ricordano lo stile della miniatura, occupando pareti intere dei saloni dei ricevimenti. Quello delle Quaranta Colonne (Chehel Sotun) ha anche un sontuoso portico sostenuto da poderosi pilastri di legno, ciascuno un tronco centenario.

Dopo pranzo il parco è invaso da famiglie che fanno picnic dappertutto. Praticamente tutte le zone ombrose dei prati sono ricoperte da grandi stuoie attorno a cui sono disposti i commensali, mentre al centro troneggiano le vivande e ogni genere di stoviglie che ci si aspetterebbe di trovare a tavola e in cucina, ma meno fuori casa. Spesso in un angolo c'è anche un grande fornello a gas, pronto per riscaldare e cucinare e, naturalmente, preparare l'immancabile tè. Gli iraniani sono soliti non zuccherare la bevanda, ma prendere una zolletta in bocca e bere il liquido facendo sciogliere lo zucchero tra la lingua e il palato: di conseguenza la tazza di tè è raramente accompagnata dal cucchiaino per mescolare.

Anche parecchi vialetti sono occupati da gruppi di persone accomodate sulle loro coperte. Mi cerco una panchina, arrivando fino al centro del parco, dove gli uomini giocano a scacchi su tavolini di cemento che riportano sul piano i riquadri della scacchiera. Queste sfide non comportano solo la partecipazione dei due giocatori, ma la presenza di spettatori che si dispongono intorno osservando lo svolgersi lento delle mosse, commentandole dopo che sono state giocate ed esternando quale sarebbe stata la loro scelta. In questa scena di vita così bella e pacifica, mi appisolo tranquillo.

Mi rimangono alcune ore per andare verso la periferia ai cosiddetti minareti oscillanti (Manar Jomban), un'attrazione popolare ma piuttosto deludente. Quando chiedo indicazioni per la strada, vengo affidato a un gruppetto di persone appena scese dallo mio stesso autobus. Si tratta di iracheni venuti in visita a un loro amico sposato e residente a Isfahan, che li sta portando appunto a vedere questa curiosità.

Si tratta di un piccolo minareto costruito alla sommità di un mausoleo, che quando viene scosso dall'interno prende un curioso movimento oscillatorio. Tutto qui, ma la gente che viene a osservare lo "spettacolo" è stupita e divertita. Quando prendo congedo dagli iracheni e il giovane mi mormora "Siamo di Nasiriya, la città in cui è entrato l'Esercito Italiano. Grazie molte...". Vorrei dire qualcosa, riscontrare la sua gratitudine, ma le parole mi si bloccano in gola e non so più cosa rispondere se non con una forte stretta di mano.

Proseguo in autobus lungo il grande viale fino all'Ateshgah, una collinetta che anticamente era un tempio del fuoco. Dalla sommità, la città appare in lontananza circondata da campi verdi e campagne coltivate nell'ampia valle.

Vorrei partire intorno alle 22, ma non ho prenotato niente; non so se arrivando alla stazione troverò un mezzo. Per ora, la necessità è di mangiare qualcosa per affrontare la notte, anche se non ho ancora fame. Per mangiare qualcosa di leggero, ordino un piatto di zuppa. Un ragazzo gentile, che insiste per pagarmi il biglietto dell'autobus, mi accompagna al locale. Gli chiedo anche dove trovare un cafenet, come qui chiamano i centri internet.

Non mi sento al livello dei giapponesi tecnologici che viaggiano con computer in miniatura e telefoni collegati costantemente a internet. Almeno in viaggio mi piace sentirmi libero da una dipendenza. Voglio solo rispondere alla necessità di comunicazione senza avere la sensazione di tradire lo spirito del paese, che tra l'altro vede un rarefarsi di posti pubblici per internet, dato che il computer sta ormai entrando nelle case.

In albergo mi offrono gentilmente di fare una doccia, che accetto molto volentieri. Poi prendo un autobus affollatissimo per la stazione degli autobus Kaveh dove trovo subito un mezzo: si parte nel giro di mezz'ora.