Nello Zanskar, ma come tornare indietro?

ImageNon mi sembra vero, ma oggi me la potrei prendere con calma. Tuttavia, la maledizione del ritmo acquisito non mi permette di stare a letto oltre le 8, il che è già un lusso.

Ora che finalmente sono giunto nello Zanskar, devo trovare un modo per uscirne senza perdere troppo tempo. Vorrei tanto permettermi di passare qui giorni senza termine ad aspettare i mezzi che forse verranno o forse no! Invece il tempo è limitato e bisogna accontentarsi, apprezzando quello che si ha.

Esploro mentalmente le diverse possibilità di lasciare la valle: la più semplice sarebbe quella di tornare da dove sono venuto, con un viaggio lungo e faticoso, ma con quale mezzo? Se è stato così difficile arrivare a Padum, mi ci vorrà una settimana per tornare indietro a Kargil.

La seconda ipotesi potrebbe essere di superare il passo Shingo La a piedi a 5090 m, lungo un famoso itinerario di trekking che porta a Darcha, oltre Leh, e da lì raggiungere Manali. Questa opzione mi permetterebbe anche di passare dallo straordinario monastero di Pughtal a due giorni di cammino da Padum e raggiungibile solo a piedi. Tuttavia sono perplesso perché i miei giorni sono appena sufficienti per completare questo percorso a ritmo serrato, ma se un problema di salute o il cattivo tempo o semplicemente un rendimento fisico inferiore al previsto mi trattenessero, perderei l'aereo del rientro.

La terza strada è quella fantastica che ho immaginato e non so nemmeno se sia fattibile. Mi sono detto che se la valle non è percorsa da una strada, lo è pur sempre da un fiume. Quindi l'idea sarebbe di ridiscendere il corso dello Zanskar in qualche imbarcazione e ritrovarsi a Nimiu, nelle vicinanze di Leh, dove si getta nell'Indo. Eviterei il Penzi La e tutta la Suru Valley.

Non esiste nessuna strada perché il fiume si incanala in gole così strette che non lasciano spazio naturale per un passaggio. Per questo motivo, d'inverno, quando il Penzi La è chiuso per la neve e il gelo, lo Zanskar rimane isolato e l'unico collegamento è il Chaddar Trek, un cammino sorprendente che la gente del posto compie in tre giorni sulla superficie ghiacciata del fiume, dormendo in cavità della roccia nel gelo della notte. Quando lo strato di ghiaccio si rompe, il fiume gelato inghiotte per sempre i corpi dei malcapitati.

Se uscissi dallo Zanskar lungo il fiume sarebbe una pacchia, ma dicono che non è possibile perché il fiume presenta delle rapide e non ci sono imbarcazioni disponibili. Peccato! Avrei visto questa gola del fiume che tanto mi affascina.

Al guardare fuori dalla finestra mi stupisco di vedere un cielo coperto oggi, con nuvole basse che nascondono le cime delle montagne. Piove. Vado a fare colazione e il simpatico gestore dell'albergo mi illustra le tappe del trek fino a Darcha… ma tanto mi basta perché mi convinca dell'imprudenza che sarebbe avventurarmi per questa strada con il tempo limitato di cui dispongo.

Con Albert mi incammino verso il Guru Gompa, che visitiamo. Ai suoi piedi un gruppo di case tibetane imbiancate con grandi finestre; sopra il fitto strato di rami secchi del tetto sventola qualche bandierina colorata di preghiera, delicata e silenziosa. Nell'attraversarlo, il gruppo di case sembra un villaggio deserto, in questa giornata così ovattata – forse sono tutti al lavoro nei campi. Poi un viso sorridente si affaccia a una finestra e chiediamo conferma a questa ragazza sulla direzione per il monastero di Karsha.

Già lo si vede abbarbicato sul fianco di una parete rocciosa color ocra all'altro lato dell'ampia valle e ci dirigiamo verso quella lontana incrostazione di costruzioni. Le gocce che cadevano rade questa mattina sono andate diminuendo e sembra che le basse nuvole bianche che tagliavano le montagne a metà stiano anch'esse lentamente disperdendosi.

Ci troviamo in un crocevia di tre valli: quella da cui siamo scesi dopo il Penzi La, quella strettissima che porta al valico del Shingo La e quella percorsa dal fiume Zanskar verso Kargil, ma solo fino a un certo punto dalla strada carrozzabile. Posso intuire che con il sole e una luce più viva, i colori delle montagne risaltino splendenti, ma così com'è non posso dire che questo paesaggio batta l'immensa desolazione affascinante di Rangdum, con il suo monastero davanti alle forme e ai colori più surreali che sia dato di immaginare.

Attraversiamo i campi e un'anziana donna ci saluta con un caloroso "Julee!", ancora più espressivo di come lo pronuncia Albert quando saluta la gente. Lo fa seguire da altre parole che non capiamo, ma riconosciamo il nome del gompa a cui siamo diretti.

Una jeep abbrevia la marcia di avvicinamento e ci lascia alla base del pittoresco gruppo di costruzioni del monastero. Per salire la ripida rampa mi devo fermare più volte con il fiato corto. Capisco quanto avventato sarebbe intraprendere un trek per altitudini estreme e con i giorni contati.

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Entriamo, accompagnati da un monaco rasato, nella tetra sala di preghiera. Tessuti a ricami colorati di gusto cinese pendono dal soffitto e cadono all'altezza degli occhi, illuminati da una luce che penetra da un secondo livello del tetto costruito ad abbaino. Ai muri oscuri discerno figure di demoni orripilanti che popolano l'inferno, scene di incubi, succubi, atti carnali e simboli erotici. Un influsso tantrico è in effetti giunto a questo antico monastero fondato 1000 anni fa.

L'ambiente infonde un forte senso di sacro. Le spesse cappe di lana dei monaci occupano con le loro forme a cono in diverse tonalità di arancione le panche di legno appena rialzate dal tavolato del pavimento e ricoperte da una striscia di tappeto. Sembrano marcare una presenza invisibile del monaco di fronte alla divinità che, quella, è comunque intangibile. Qui si svolge la preghiera comunitaria del mattino, con i 100 monaci che fatico a immaginare accomodati in questo spazio ristretto. Su uno scaffale presenziano gli antichi codici a fogli sciolti racchiusi tra due rigide assicelle di legno. Immagino il durissimo inverno, al mattino, in questa antica stanza.

Passiamo a una seconda sala. Stiamo per congedarci dal monaco che solo comunica con noi grazie a poche parole in inglese, quando Albert, un po' sfrontato, gli chiede se può mostrarci la sua cella. Acconsente e ci porta giù dalla ripida discesa, poi di nuovo su, per un altro passaggio. Entriamo in una camera doppia per due monaci, con un piccolo angolo attrezzato a cucina per il pasto della sera. Ci prepara un tè al burro usando un cilindro di legno in cui scorre lo stantuffo per mescolare l'emulsione. È molto accogliente, la stanzetta, e così anche lui stesso. Sento che abbiamo stabilito un rapporto di simpatia, non siamo stati turisti come tanti.

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Sotto, nella piazzetta, incontriamo un francese, non tanto giovane, ma vestito vagamente alla hippy con una collana e anelli. Malgrado l'aspetto un po' eccentrico, è una persona educata e cortese. Mi racconta che è già stato nello Zanskar diverse volte per periodi prolungati e anche questa volta rimane per due mesi a vivere nel monastero. È accompagnato da un bellissimo bambino monaco, vestito di rosso cupo, il suo compagno di stanza.

Al rientro in paese ho ormai deciso cosa farò per uscire da questa valle. Sarà l'unica soluzione attuabile con ragionevolezza: prendere il bus e tornare a Kargil. Se non che, rimane il problema di come realizzare il piano, dato che un autobus in partenza domani c'è, ma è al completo. Le auto chiedono somme spropositate per compiere il lungo tragitto su richiesta.

Insisto quindi con il responsabile dell'autobus implorandolo di farmi salire. Gli dico che starò nella corsia per tutte le 12 ore o più del tragitto, partendo alle 2 di notte. È una pazzia, lo so benissimo, ma se non trovo di meglio, sarà la mia unica via di salvezza. Il ragazzo si deve dire che sono matto, soprattutto quando gli annuncio senza potermi trattenere dalle risa per l'assurdità dell'idea, che comprerò una sedia di plastica per starci seduto. Oppure forse si dirà che sono un disperato, ma alla fine acconsente e mi assicuro così una soluzione di rimedio.

A cena non ci sembra vero di trovare nel menù piatti che vanno oltre riso e legumi. Anche se non sarà una cucina eccezionale, la varietà dei sapori risveglia un poco l'appetito. Ho una lunga e interessante discussione con Albert circa la realizzazione di sé stessi nella vita. Accettare il proprio destino o lottare per seguire la propria strada? Contrariamente a lui, credo che ci siano limiti che non possiamo ignorare né valicare e a volte è meglio imparare ad accettarli per potersi sentire più felici.

Ma forse il vero problema, per me, è capire qual è la strada della realizzazione. Come potrei lottare e fare di tutto per cambiare quando non ho un'ideale davanti agli occhi? Tanto vale accettare ciò in cui mi trovo senza grandi sconvolgimenti, atteggiamento che denota forse una soddisfazione personale di fondo. Ma, chi lo sa, tutti abbiamo momenti di insoddisfazione in cui riaffiorano quei sogni inespressi o dimenticati.

D'altronde, rifletto, la gente che vive qui non deve avere un grande desiderio di essere diversa da quello che è e si mantiene dentro i confini dello spazio e delle tradizioni, quasi lasciandosi vivere. Accettando una gran parte di quello che abbiamo e ci viene tramandato dal passato, abbiamo pace. Ma il punto sta che nella nostra cultura molto di questa eredità si trova messo in discussione, sconvolto e disprezzato dai più.Image

Mentre Albert si assenta per andare in camera, butto da parte tutto il mio orgoglio e chiedo a due italiani in jeep con autista se domani abbiano in programma di tornare a Kargil. Potrei forse unirmi a loro? Mi confermano che scenderanno verso Srinagar e Claudio gentilmente mi dà il benvenuto a bordo.

Mi sono sistemato, molto comodamente. Ho contraddetto i miei principi che mi portano solitamente a viaggiare con la gente del posto per capirla, ma questa volta lo sforzo richiesto era troppo grande e così avrò in parte alleviato la fatica di uno spostamento che è già stato assai lungo e duro.

7 agosto - Saluto Albert e partiamo alle 6 con una sosta subito al piccolo monastero di Sani. Un giovane monaco ci apre la sala, invasa dall'odore acre di candele. Risaliamo la strada fino al Penzi La, oggi illuminata da chiazze di luce che la rendono affascinante.

Ore su ore di strada e scendiamo verso Rangdum Gompa, che individuo da lontano, su un nuovo sfondo di un'angolazione diversa, ma sempre fantastica. Saluto il monaco Mingyur al passaggio. Alle 12 rivedo il piazzale dove per due giorni ho aspettato un mezzo di trasporto e mi rendo conto oggi ancora di più, che quell'attesa mi ha fatto vivere esperienze molto importanti.

Ridiscendiamo la lunga Suru Valley. Passo da Panikhar e al posto di polizia saluto il mio amico poliziotto, quello del tè salato all'alba. Incrociamo anche l'autista che mi ha portato fino a Rangdum. In quei giorni sofferti per via dei trasporti irregolari, quante persone ho conosciuto e quanti posti ho dovuto scoprire per forza!Image

Inoltre, q
uesta volta ho notato nel paesaggio particolari che non avevo osservato nel viaggio di andata come quella montagna striata da segni verticali neri in tutte le sue rocce come se le fosse colato sopra dell'inchiostro. O il fenomeno meraviglioso e poderoso della natura che è un ghiacciaio con il segno di modellamento che lascia anche quando si è ritirato ed è estinto. È come il pollice di un gigante che ha spinto lentamente nella plastilina e si è ritratto scomparendo, lasciando impressa la traccia della sua potenza.