La puja di Lamayuru

ImageDa Kargil parto alle 7 con la jeep collettiva per seguire una valle solcata da un fiume secco. Le montagne sono diventate desertiche; quelle più alte, rocciose; quelle più basse, di terra, tutte sono solcate dai segni dell'acqua passata, ma ricordano la pelle secca e grinzosa della gente del posto. L'aria è infatti così asciutta che per rimediare ho dovuto comprato anch'io una specie paraffina che emana un tanfo poco salutare di petrolio, ma sicuramente questo strato sintetico bloccherà definitivamente la disidratazione del viso.

L'autista, piccoletto, ha una guida molto nervosa e compie sorpassi sul ciglio sterrato della strada percorsa da tanti camion. Data la secchezza dell'aria, la polvere è dappertutto e per di più viene sollevata dai mezzi pesanti. I quali lasciano anche una scia puzzolente di neri gas di scarico, fatto che rende la strada un ambiente poco piacevole e provoca un senso di nausea.

 

Saliamo a un valicdo, poi si scende, per risalire nuovamente in diversi tornanti ai 4100 m del Fotu La. Da qui la vista è amplissima su tutte le montagne. Quelle più vicine appaiono disegnate da pennellate di varie tonalità ocra in infinite gradazioni. Sullo sfondo, in quelle più lontane, torna a prevalere il colore bluastro dell'atmosfera.

Sono arrivato a Lamayuru alle 11 e mi sono diretto subito al monastero. È in corso il rito della puja frequentato da troppi turisti che infrangono l'incanto. I monaci non sembrano essere turbati, anzi dimostrano benevolenza a questa nostra intrusione, includendoci nella distribuzione di un dolcissimo succo d'arancia. Non ritrovo quell'aria di mistero che permeava le sale deserte e semioscure che ho trovato nello Zanskar, ma cerco di ritrovare la concentrazione per partecipare alla celebrazione. Rimane comunque molto suggestiva dato che è condotta da un grande numero di monaci in coro.

Il rito è in continua evoluzione. Melodie cantilenanti risuonano all'unisono o più spesso a voci diverse, un po' disordinate, tutte di tonalità bassissime, sepolcrali. Ogni tanto vengono fatti suonare gli strumenti che sono posati sul banchetto di fronte a molti monaci. Sono corni, conchiglie, tamburi, cimbali e marcano con la loro cacofonia la conclusione di una fase o un momento saliente. Certo è che questo stridore fa partecipare attivamente anche i bambini monaci, che per il resto del tempo si dimenano distratti o sopportano annoiati.

Ora le voci corale si scompongono in una serie di mugugni scoordinati, come degli strumenti che vengono accordati nell'orchestra prima del concerto, poi riprendono sotto forma di salmodia. Osservo un monaco rasato dalle sopraciglia folte e sporgenti e lo sguardo un po' spiritato. Le sue mani disegnano movimenti concatenati per l'aria, descrivendo simboli, facendo accoppiare graziosamente le dita in forme e segni incantatori in continuo divenire come lo è questa preghiera. Riprende l'idea delle ruote mani che la ripetono la stessa preghiera al vento quando vengono girate dalla mano di un passante.Image

Passa un monaco a versare uno zampillo d'acqua da una conchiglia nelle mani raccolte dei confratelli. Alcuni bambini monaci ne approfittano per spruzzarsi qualche goccia e farsi dispetti, poi giocare con i bicchieri di plastica. Un piccolo che passa a raccogliere i contenitori usati mi chiede l'ora. Ormai è vicino il momento di chiudere la cerimonia e di avviarsi al pranzo.

Trovo in paese sotto il monastero una graziosissima pensione con giardino. Dopo pranzo mi inerpico per un sentiero tracciato dalle capre che risale il ripido versante della montagna opposta all'abitato, ma non è prudente continuare perché la pendente è troppo scoscesa e temo di scivolare con le scarpe che porto.

Torno così al monastero per passeggiare tra gli edifici. Alcuni bimbi mi spingono letteralmente nel refettorio dove mi viene offerta una tazza di tè al burro così ricco che appare verdastro in superficie per il grasso che galleggia.

Quel monaco dall'aspetto severo che stamattina occupava lo scranno rialzato all'entrata è temuto dai bambini, quasi un padre castigatore, ma benevolo allo stesso tempo. In effetti questi monasteri sembrano una famiglia di soli uomini.

Prima di cena vado a trovare il giovane contadino che, mentre facevo il bucato alla fontana del villaggio, mi ha invitato a casa sua, costruita secondo lo stile tibetano come tutte quelle del villaggio. Entro da uno scuro ingresso che conduce a un cortile sul quale si affacciano le stanze e la cucina. Mi introduce in una stanza con il pavimento di terra battuta, due larghe finestre, il soffitto basso.

Una parete è occupata dalla credenza nella quale stanno in bella mostra i servizi di tazze, belle pentolone lucide e panciute di metallo, i piatti impilati. I mestoli decorati pendono da un ripiano, dando un'impressione di ordine e di cura. Una bassa stufa di metallo ladakha si trova quasi al centro. Gli sportelli e i fianchi sono ornati di fregi di metallo. Una serie di cuscini ricoperti di strisce di tappeto grezzo e impolverato segue due lati della stanza, che ora non è molto illuminata perché il sole è ormai tramontato.Image

Mi viene offerto un bicchiere di tè che spero vivamente non essere ancora al burro perché per oggi ne ho avuto abbastanza. Ma per fortuna è solo al latte. Cerco di conversare su temi generali con il mio ospite, ma non possiamo spingerci oltre un certo punto per via delle barriere linguistiche.

Arriva la moglie, una bella ragazza con la testa cinta da un fazzoletto, e inizia a preparare la cena su un fornello a gas. Impasta in una bacinella di metallo la farina di tsampa con acqua. Ne fa un disco spesso che appoggia su un piatto rialzato da terra con un gambo e lo taglia a strisce. Con le mani lo assottiglia a forma di lunghi cilindri, poi lo taglia in sezioni che schiaccia tra le dita ricavandone delle orecchiette per la minestra.

Intanto il marito mi ha portato una caraffa di plastica, riempita a metà di grani d'orzo. E' la birra locale, detta chang, fatta di cereali fermentati. Aggiunge acqua fino a riempirla, poi con un cucchiaio di legno rimesta e stempera per far rilasciare il sapore, infine riempie i nostri due bicchieri.

Al primo impatto ha un forte gusto di mosto fermentato, poi ci si abitua e diventa più gradevole. Non appena svuoto il bicchiere, anche parzialmente, lo rabbocca. Dice che da quella quantità di cereali si può fare birra per tre caraffe e infatti approfittiamo di tutto il sugo per dissetarci di questa bevanda. Ma la carica batterica è troppo forte per il mio pur allenato intestino e di notte la pago cara!

9 agosto - Anche stamattina voglio assistere alla puja dal suo inizio, alle 6. Salgo al monastero di corsa perché la sveglia era in ritardo e nella sala mi accorgo con piacere di essere l'unico estraneo. Questo privilegio dura per oltre mezz'ora, quando arriva qualche altro straniero, ma devo ammettere che si tratta di gente venuta per partecipare al rito con concentrazione, senza considerarlo uno spettacolo folcloristico. Le fasi sono quelle che ho visto ieri perché la preghiera dura mezza mattinata e assisto per due ore senza stancarmi.