L'autista disumano ancora in marcia per Manali

Ho riposato bene in una pensione del paese. L'autista disumano sembra anche lui fresco, se mai ha cessato di esserlo anche alla fine delle 15 ore di guida di ieri su queste strade maledette. Alle 6.30 ripartiamo dopo avere, come di consueto, legato i bagagli al tetto.

I passeggeri sono in parte cambiati e purtroppo anche il mio sedile. Ieri sera mi sono lasciato abbindolare dal bigliettaio e senza troppo riflettere sulle conseguenze ho acconsentito a un cambio di posto. Il mio bellissimo posto 14 che dava sul corridoio e mi impediva di vedere sia l'uno che l'altro fianco del mezzo è diventato il n. 1! Ora mi ritrovo al lato dell'autista con vista libera su due lati del mezzo, davanti e sinistro.

La marcia inizia tranquilla quasi sul fondovalle attraverso villaggi che si mettono in moto nell'umidità della mattina, cosa che mi colpisce dopo le aridità del Ladakh. Altro punto di diversità che balza agli occhi, un tempio induista che si fa riconoscere con la sua caratteristica sikhara.

Arriviamo in vista di un ponte di ferro e parecchi veicoli sono fermi. Anche all'altro capo si vedono mezzi in attesa. Scendo, prendo un tè, poi vado a vedere la causa dell'interruzione. Stanno sostituendo le lastre di ferro che fanno da fondo, tutto con il lavoro di braccia e mani. I manovali spostano le pesantissime lastre, le loro gambe spingono mentre si puntano con le braccia alla struttura nuda di metallo sotto cui scorre l'acqua burrascosa. Poi intervengono quelli che avvitano i bulloni e saldatori.

Nessuna protezione, né guanti. La numerosa squadra non è tutta al lavoro. Sembra anzi che solo qualche volonteroso prenda l'iniziativa di agire sotto lo sguardo di molti altri sfaccendati. Passa mezz'ora, un'ora, poi un'ora e mezzo. Tutti sempre fermi ad aspettare.

Mancano ancora 7 lastre e calcolando il ritmo a cui procedono, immagino che ne avremo ancora per parecchie ore. Invece, improvvisamente, ecco che i veicoli dal nostro lato ricevono il segnale di muoversi, anche se le ultime lastre sono solo appoggiate allo scheletro del ponte. Infatti per "prudenza" ci fanno attraversare a piedi e risaliamo sul mezzo all'altro lato. Si deve aspettare però ancora mezz'ora per la registrazione dei passaporti al posto di polizia.

Da qui la strada inizia a salire. Mi dico che a Manali mancano solo 76 km e non può esserci ancora un valico da attraversare. Invece i tornanti si susseguono, a ogni curva il muso del mezzo si sporge dalla strada e tutto il lato in cui sono seduto sembra lanciarsi nel vuoto di una valle che si allontana sempre più sotto di noi. Ormai quel torrente di acqua biancastra, pieno di detriti di scioglimento dei ghiacciai, rimpicciolito dall'altitudine, sembra una pista in più di terra battuta che solca i versanti di questa valle.

Continuano anche gli incroci con gli altri mezzi, che dal mio privilegiato posto n. 1, si vedono senza censura. Ma chiudendo gli occhi in questi punti critici, come per magia mi ritrovo fuori dal pericolo avvertito.

La strada continua a salire. Agli incroci è una soddisfazione immensa sentire la sicurezza che dà il lato della montagna quando tocca all'altro mezzo destreggiarsi sul ciglio del precipizio per superarci. Ma non è sempre così e tante volte ci tocca spingere le ruote a pericolose distanze da questo bordo che spesso si vede frastagliato, crepato, dissestato.

La strada sale, continua a salire. Squadre di operai sono al lavoro per la manutenzione o meglio il miglioramento dei tratti più brutti. Stendono strati di pietrisco ottenuto spaccando a colpi di mazza i sassi ammucchiati in pile. Uomini vestiti di stracci, a volte con bocca e naso avvolti in un lurido fazzoletto da collo come rudimentale riparo contro la polvere.

Le pietre spaccate vengono trasportate in secchi a spalla, poi sparpagliate. Nemmeno per distenderle vedo usare attrezzi. Le mani di queste moltitudini di operai costano di meno, valgono di meno, rendono di più, data la loro abbondanza. I visi non sono di questa zona, né i lineamenti. La BRO, realizzatrice di queste maledette strade, assolda gente da lontano per farla lavorare a stagione, dormire in tende durante l'umida notte. E' ancora una traccia delle migrazioni interne indiane.

A una curva un po' decisa si sente un grido da dietro. Un sacco si è staccato dai bagagli sul tetto ed è rotolato giù dal fianco della montagna. Il proprietario scende a recuperarlo perché fortunatamente si è fermato contro un masso. Continuiamo a salire verso il passo. La pendente si fa meno impressionante, ma a uno stretto tonante ci troviamo incastrati con altri due camion e si deve fare retromarcia col fischietto per uscire dalla curva e cedere il passo.

Ormai siamo quasi in cima e dal valico provengono nebbie che si travasano da una valle all'altra. La quota del Rohtang La è 3.978 m. Ci troviamo ora nel bianco lattiginoso di una fitta nebbia rischiarata dal sole. La visibilità è scarsa. Vedo emergere e prendere forma riconoscibile alcune belle conifere, che presto scompaiono nell'infittirsi del biancore. Al di là la strada non si vede nulla e questa beata incoscienza è tranquillizzante. Inizia una pioggerella sottile. Ci troviamo incolonnati in un traffico di jeep di turisti indiani che salgono da Manali a vedere il passo. Non so che cosa abbiano potuto vedere oggi con questo tempo, ma non li compatisco. Si sono risparmiati qualche anno di vita.

Ci fermiamo, bloccati. Degli operai hanno acceso al margine della strada un fuoco di sterpi, le cui fiamme squarciano la nebbia ma non la dissolvono. Sembra un paesaggio da entrata agli inferi. Si avanza un poco. Nella nebbia scorgo decine di manovali, uomini e donne, scaldare il bitume su questi fuochi e versarne zampilli roventi sulla carreggiata, imbrattandosi le mani e gli stracci di cui sono coperti. I fumi e gli odori, le figure nella nebbia ne fanno una scena di condannati eterni.

Avanziamo, ma dopo poco siamo nuovamente fermi nella discesa. Quando riprendiamo il passo ci accorgiamo della causa. Alcuni veicoli militari da traino, una squadra di soldati… e infine dalla nebbia appare la sagoma di un camion orrendamente rovinato dopo essere caduto da ciglio. È uscito dalla stretta pista, si è capovolto e si è fermato contro un albero. Lo passiamo così com'è, con le quattro ruote per aria, in un silenzio ammutolito. Nessuno osa pronunciare commenti davanti a quello che sembra un memento mori, un monito eloquente per noi passeggeri.

Scendiamo al di sotto della linea delle nuvole e si aprono incantevoli linee d'acqua e cascate vaporizzate che solcano le rocce alla cui base la vegetazione è rigogliosa. Manali è un grande centro di turismo indiano. Al suo intorno foreste di verdissime e splendide conifere le fanno un abbraccio naturale. All'entrata in stazione scoppia un applauso di riconoscenza per la bravura dell'autista. Io stesso gli avevo segretamente scattato una foto per ricordare la mia ammirazione.

Apprendo che la strada per Delhi è interrotta da una frana e il mio aereo è tra sole 48 ore… Inizia una scommessa contro il tempo e le piogge del monsone. Non sono ansioso perché attendo di vedere cosa mi capiterà, ma il pensiero di tanto in tanto ritorna lì durate questa serata a Manali. Prendo una camera in un albergo nella parte alta del centro nuovo e per raggiungerlo si costeggia uno squallido accampamento di tende dei lavoratori stagionali.

Old Manali è una zona più turistica più frequentata dagli stranieri, mentre il centro rivela una specializzazione per il turismo dal Punjab. Ho iniziato da quello stato e idealmente ritorno a lui: rivedo la ruota buddista del tempo che gira su se stessa. Inizia una pioggia fine che presto però diventa fitta e duratura e mi chiedo ancora una volta che ne sarà del terreno franoso della strada che porta verso Delhi.