Il vulcano sull'oceano

Faccio colazione in un ristorante popolare. Il pane viene preparato al momento su una grande piastra scaldata da tante fiammelle di gas e risulta una specie di piadina che viene cosparsa di olio con l'aiuto di una paletta metallica. Mi faccio portare una frittata, del tè al latte e un caffè che non si riconoscerebbe come tale, se non per il nome. Sa fortemente di zenzero ed è di colore chiaro come una camomilla. Concludo con un frullato di mango per rimanere nell'ambito dei sapori esotici di queste terre protese verso l'Oceano Indiano.

Vado alla farza, la fila dei taxi, per Bir Ali. Devo trattare con il conducente che non mi vuole a bordo in quanto teme che i militari gli facciano problemi, ma lo convinco dicendogli che non ci saranno complicazioni, ho tutte le carte e i permessi in regola.

Il viaggio attraversa paesaggi spettacolari. Rocce aspre dai colori bruciati come il porfido si addolciscono nell'incontro con le acque azzurre dell'oceano verso la spiaggia, dove il colore principe del nostro pianeta si trova spezzato in chiazze di diverse tonalità, dagli azzurri chiarissimi dovuti alla bianca sabbia in profondità, ai blu intensi per via delle rocce o delle alghe. Attraversiamo poi un altro tratto dai contorni ancora più duri, sembrano quegli scogli che feriscono i piedi se ci si cammina sopra, ma hanno le dimensioni di montagne nere e spigolose. Queste stesse forme oscure, in un tratto successivo, sono inondate da fiumi di sabbia gialla che sembrano saliti, immagino sospinti da forti venti, fino a raggiungere le più alte cime, ma lasciano trasparire sempre pizzi rocciosi scurissimi.

Chiedo all'autista di farmi scendere al vulcano prima dell'abitato e mi lascia al bordo della strada. Gli altri passeggeri si dovranno chiedere cosa farà un pazzo che scende nel deserto sotto il sole di mezzogiorno, ma ho un preciso piano in testa e inizio a salire per lo scosceso fianco dell'altura. Mollo a terra lo zaino troppo pesante e continuo sul pendio che si fa sempre più ripido. Al bordo del cratere si apre uno spettacolo unico: un lago verde accolto nel bacino molto incassato sotto di me che contrasta con l'azzurro oceano oltre il bordo dirimpetto.

Calcolo le dimensioni per vedere se ce la posso fare a compiere l'intero giro a piedi. Rivango dai ricordi scolastici la formula della circonferenza con pi greca, ma è comunque difficile stimare il raggio di questo gigante. Inoltre non capisco se il sentiero sia presente e soprattutto sia praticabile su tutto il bordo del cratere. Vedo la roccia salire per poi scendere di molto sul lato verso il mare in un tratto che non deve essere molto agevole. Poi, l'interno del cratere è molto scosceso e un passo falso vorrebbe dire cadere in un salto di oltre 100 metri. Inizio poco convinto, dicendomi che potrò sempre tornare indietro.

Constato che le dimensioni sono davvero enormi: in 20 minuti sono arrivato al punto più alto, forse a un quarto del percorso, ma poi dovrò scendere molto giù e per tornare  al punto di partenza si deve di nuovo salire in alto e là, dove il vulcano si appoggia a una montagna un po' più alta, non si capisce se ci sarà il sentiero.

Da dove mi trovo il panorama abbraccia orizzonti diversi e ancora più ampi. Si vedono alcune isolette oltre la costa, una appare tutta bianca. Proseguo e non trovo ostacoli, anzi, arrivato alla montagna in cui si fonde il vulcano, decido di scalarla, con una certa difficoltà. È scivolosa e ripidissima, ma in poco tempo arrivo alla vetta che domina tutta la baia di Bir Ali.

Bilancio dell'avventura: un braccio rosso come la pelle di un gambero – già nel pulmino era rimasto esposto sotto il sole fuori dal finestrino – un litro di liquidi persi con la sudorazione, oltre un'ora di marcia sul bordo del gigante drago estinto, una sfida vinta, un mirabile spettacolo della natura.

Recupero lo zaino e scendo alla strada. Mi metto subito una maglia dalle maniche lunghe ma dal cotone si sprigiona lo stomachevole odore di fumo dell'albergo di ieri notte. Avrei voglia di lavare tutto, subito! Intanto su questa strada deserta non passano auto. Sento nitidamente le parole della radio, Iza'at al-Mukalla, che suona a forse 200 m di distanza da me. Proviene da una scavatrice, dove un operaio ha trovato un'occupazione più piacevole in questo clima piuttosto che lavorare. Nell'aria calma sento tutte le parole scandite, enunciate in uno stile radiofonico antiquato, che trattano la coltivazione della noce moscata. Finalmente si ferma un camioncino, mi carica sul cassone e mi fa scendere a Bir Ali.

Qui non capisco bene come sia la situazione. I militari mi controllano i permessi e mi invitano a sedermi all'ombra. Alcuni mi mostrano fieri alcuni filmati osceni sui loro telefonini. Squallido! C'è chi mi dice che la pornografia non esiste nel loro paese, ma ribatto che il telefono è yemenita e appartiene a un cittadino yemenita, come può dire che non esistono? Anche se è robaccia prodotta all'estero, qui viene consumata.

Qualcuno si propone di portarmi per 300 riyal all'albergo che apparentemente si trova all'altro capo della lunga baia, ma decido di avviarmi a piedi, sperando in un passaggio lungo la strada. Un uomo mi rincorre per indicarmi il cammino: mi dice di seguire la spiaggia, arrivare alla montagna nera che la chiude e subito al di là troverò l'accampamento. Mi metto di buona lena camminando sulla spiaggia deserta e selvaggia, invasa purtroppo da rifiuti. Mi allontano sempre più dalle case che, ora capisco, erano il paese di Bir Ali. Si aggirano sul bagnasciuga grossi granchi che si dileguano al mio avvicinarmi.

Dopo forse un'ora di marcia arrivo alla montagna e al di là si apre un'altra baia dalla sabbia bella e pulita. Vedo una costruzione in muratura, il posto dove devo arrivare. Contratto il prezzo della camera e mi portano da un uomo, suppongo il padrone, che sta seduto semisdraiato sotto il tetto di una capanna aperta verso il mare. Mi saluta senza troppo scomodarsi e mi offre acqua fresca, scambia poche parole, poi con calma olimpica prende una rivista di calcio e si mette a sfogliarla in mia presenza. Dopo aver sorseggiato il tè, di fronte a tanta indifferenza che mi lascia perplesso e di cui non capisco il senso, mi metto a leggere i miei appunti.

Sembrava che volessi dirmi qualcosa, ma forse stanno sistemando la stanza? Quando alzo lo sguardo, trovo i suoi occhi fissati su di me, come se stesse aspettando che terminassi con le mie cose per parlarmi. Con una voce pacata e un accento colto mi rivolge alcune domande, commenta su alcune cose.

Si avvia una lenta conversazione mentre lui di tanto in tanto impartisce ordini concisi ad altrettanti valletti che gli portano tè, poi acqua fresca, poi le foglie di qat appena lavate che fa stendere su una spugna accanto a sé. Chiede un bicchiere di miele che arriva del colore del tè, con un bastoncino di liquirizia impiantato al centro. Dice di aver viaggiato in lungo e in largo per l'Europa, l'Oriente, per via della sua attività commerciale.

Il quadro collima con il suo atteggiamento da ricco uomo d'affari, anche se l'ambiente in cui si trova è, tutto sommato, modesto. Sprigiona un'aurea da boss e ogni tanto intercala il suo arabo con parole inglesi, non per sfoggio, ma perché sono termini commerciali di difficile traduzione. Che singolare accoglienza in un albergo! Mi invita a mettermi a mio agio, a fare una nuotata se voglio, riposarmi, e sono sempre più sorpreso perché mi sembra di essere trattato come se fossi ospite personale in casa sua.

La mia capanna sembra quella dello zio Tom. Il pavimento è di sabbia battuta, un riquadro di linoleum su cui è disteso un materassino di gomma piuma, le pareti di foglie di palma secche intrecciate, spesse, tre finestrelle senza chiusura, una porta verso la spiaggia bianca e oltre, il mare cristallino. Niente in vista se non le rade capanne, nessun altro ospite nel campo.

Nuoto per un po', poi mi distendo sotto la zanzariera, aspettando il tramonto. La cena è un piatto di fagioli con pane piatto, un po' di formaggio e marmellata. Me la portano nella capanna. Dopo mangiato, verso le 20, vado alla casa e mi intrattengo a parlare fino alle 22.30 alla luce di una lampada a gas accesa dopo lo spegnimento del generatore di corrente. Grosse cavallette saltano di tanto in tanto, grandi granchi scorrazzano indaffarati per la sabbia e si perdono nel buio. Penso che lascerò montata la zanzariera questa notte, nonostante mi abbiano assicurato che non ci sono zanzare. Non ho paura delle cavallette, ma il loro passo sulla pelle è un po' impressionante, soprattutto durante la notte.

18 aprile – Mi godo la spiaggia. Cerco di scalare la montagna nera per vedere il panorama dall'alto ma oltre una certa altezza è impossibile progredire da questo lato. Ciò nonostante già da qui la vista è splendida e le acque chiare sotto invitano a scendere e approfittare di loro. Così faccio e mi beo nella tranquillità del posto, galleggiando pigramente nel tiepido mare. Alle 11.30 pago il conto e vorrei avviarmi a piedi verso il villaggio, ma mi trattengono dicendo che mi porteranno a Bir Ali in auto. Passa mezz'ora, e capisco che non si muove nessuno e che se ci sarà un'auto dovrò pagarla come un taxi, quindi mi alzo abbastanza scocciato. Saluto e dico che me ne sarei dovuto andare da subito. Cercano di dissuadermi dalla finestra, ma proseguo. Se non si sa cosa si vuole nel mondo arabo, si perde la trebisonda. In tre quarti d'ora raggiungo il posto di polizia di ieri, mi dicono che effettivamente c'è un bus alle 13.30 per Aden, cosa che sorprendentemente nessuno sapeva al campeggio, e quindi ho anche il tempo per mangiare.

Ordino riso e pollo che mangio seduto sulla stuoia circolare per terra, portando il cibo alla bocca con le mani. Mi sento un po' maleducato, ma qui è il modo normale. Non penso nemmeno di chiedere le posate, che probabilmente non hanno nemmeno. Inoltre ho imparato a soppesare i grani di riso per compattarli prima di metterli in bocca e quasi mi diverto.Arriva il bus, contratto la tariffa che l'autista si intascherà come guadagno extra e parto. Ci sono anche tre coreani a bordo che lavorano in un impianto di gas in costruzione sulla costa.

Rocce nere tormentate cospargono i pendii del rilievo fino alla costa, segno evidente di un'origine vulcanica. In un tratto, tracce di veicoli e ruspe che hanno rimosso questo rivestimento sembrano come ferite nel manto della terra inviolato e primordiale. Segue un'infinita distesa di sabbia cosparsa da montagnette con ciuffi di erba secca quasi per scherzo, e la prospettiva dal mezzo che corre fa sembrare queste cunette girare intorno e rincorrersi in un pazzo girotondo sullo sfondo di una striscia di mare azzurro. Lasciamo la costa e ci spingiamo lungo una strada stretta verso le montagne. Presto sarà inaugurata una nuova strada per Aden che segue la costa, ma per ora dobbiamo allungare ed entrare in vicinanza di Shabwa. Il paesaggio montuoso impervio è fatto di enormi torrioni di roccia, baluardi sostenuti da fianchi di detriti, scogliere verticali che si sgretolano. È in queste regioni aspre che si sono verificati dei rapimenti in passato.

Entriamo nel governatorato di Abian e siamo scortati da una camionetta della polizia con uomini armati che ci precede. Nel pulman c'è un ufficiale di polizia nervoso che inveisce contro i coreani la cui presenza a bordo del mezzo richiede il suo intervento. Io non capisco e dopo un po' chiedo le scorte vengono organizzate solo per i coreani. E gli altri stranieri? Ma io è come se non esistessi, sono in incognito. A tutti i posti di controllo, l'autista dichiara di avere a bordo come stranieri solo tre coreani. Sento che qualcuno, parlando di me dice, che devo essere egiziano; un altro nega, dice giordano. Io dico no, sono italiano! Ma anche d'ora in poi, ai posti di controllo esistono solo i coreani... La strada si inerpica a curve su per le cime, poi scende verso Aden.

Poco prima di arrivare in città contatto Sarah, un'amica di Géraldine. Mi dice molto gentilmente che mi aspetta a casa sua e viene a prendermi davanti alla sede della polizia di Aden. Mi fa piacere trovare un'amicizia in questo paese, per interrompere un po' lo schema della giornata di viaggio. Inoltre mi dice che ha studiato a Napoli e in effetti parla anche un buon italiano. Abita in una tranquilla villetta, enorme per una sola persona. Mi dà una bella camera con aria condizionata.