Il monte Nemrut. Diyarbakir

Le teste del mausoleo sul Nemrut31 luglio - Ho firmato una mezza condanna aderendo all'escursione sul monte Nemrut che partirà alle 2 di notte. In questo modo non dovrò passare la mattina in una città insulsa aspettando la partenza del tramonto.

Ieri sera mi ero ritirato abbastanza presto dopo una sosta in pasticceria dove avevo preso un po' di baklava e del tè, la mia cena, dato che non avevo molta fame. E' stata una sosta gradevole nella calda aria serale, coccolato da tutti, che non sapevano come accontentarmi e viziarmi, come un vero pascià. Mi sono ritirato presto, ma ho tardato a prendere sonno per colpa del tè. Alle 2.15, quando sento bussare delicatamente alla porta, deciso, ma non senza sforzo, mi strappo dal letto.

Giunti con il pulmino in prossimità della vetta a oltre 2000 m, ci incamminiamo su un sentiero ancora buio e aspettiamo il sorgere del sole nella fresca aria del mattino. Siamo ai piedi della piramide di massi costruita per servire da mausoleo al re Antioco nel I secolo a.C., mai esplorata al suo interno. Le statue megalitiche decapitate e le relative teste ai loro piedi, ci guardano dai loro visi bestiali nell'oscurità della notte, ma piano piano si illuminano dell'aurora e vengono toccate dai primi raggi solari, sempre più caldi. Sono in compagnia di due ragazze turche che non parlano molto inglese, ma esprimono comunque la loro originale simpatia. Sotto di noi una campagna brulla e ondulata si illumina anch'essa di una luce timida, prima sulle alture e gradatamente poi negli anfratti di un paesaggio che sembra tutto la carta corrugata di un modellino visto dall'alto. L'unico segno di vita è l'acqua che invade il bacino di un fiume sbarrato.

Dopo il sorgere del sole continuiamo il giro scendendo ormai nella luminosissima mattina per una strada diversa che tocca altri diversi punti interessanti. Alle 9 sono di ritorno e mi faccio una doccia. Invece di dedicarmi al riposo come mi ero ripromesso, decido di evitare il caldo della stanza. Già alle 8 il sole scottava e ora che batte sulle finestre da più di un'ora si è venuta a creare una serra secca. Mi dirigo alla stazione degli autobus dove apprendo che il pulman per Diyarbakir partirà alle 11.30. Ho tempo per fare colazione nella pasticceria di ieri sera dove prendo due squisite pagnottine e baklava con tè. Il padrone ancora si fa in 4 di cortesia e un altro signore viene a fare conversazione in inglese con me. Ho l'impressione che mi facciano pagare meno del dovuto per ospitalità: i turchi sono incredibilmente gentili.

Alla stazione il primo pulmino si riempie senza che possa salire a bordo, ma dicono che un secondo arriverà presto. So di attirare l'attenzione in quanto straniero e infatti presto si fanno vicini dei ragazzi per conversare. Un bambino mi porta una sedia di plastica perché non aspetti in piedi. Dopo un quarto d'ora arriva il pulmino e ci sistemiamo; io siedo davanti. Attraversiamo le colorate montagne di gialli e ocra punteggiate di alberi verde scuro senza altra vegetazione sulla nuda terra tra di loro. Il cielo è di un blu limpido. Arriviamo al braccio di lago artificiale che ha sommerso la strada. Le acque sono di un bellissimo azzurro chiaro e rispecchiano il giallo oro delle montagne.

Arrivando, abbiamo visto il traghetto partire e bisogna quindi aspettare un'ora e mezzo per salire sul prossimo. Il mio compagno di sedile mi invita a prendere un tè, un dolce e una sigaretta all'ombra della pergola. Con estrema pazienza, insiste nel conversare senza che abbiamo una lingua comune. E' curdo e ha passato anni a Istanbul facendo il lustrascarpe. Riconosco in lui i tratti di quell'affabilità e convivialità che avevo incontrato presso dei compagni di corso curdi a Tunisi qualche anno fa. Presto arriva un altro ragazzo e riusciamo a capirci un minimo. Qualche parola simile all'arabo che capto qua e là, qualche parola araba che pronuncio fanno passare molti messaggi. E il tempo passa senza noia.

Attraversato il lago e risalita l'alta sponda, piombiamo in un paesaggio che fa parte di un mondo totalmente diverso. Siamo in una steppa asiatica, piatta e bruciata, secca, gialla, il cielo ha cambiato improvvisamente colore ed è diventato pallido, grigiastro. Slavati sono anche del resto i colori della natura. Alla prima città cambio mezzo e compagni di viaggio per percorrere gli ultimi 90 km su questo altopiano desolato. Arrivo a Diyarbakir attraversando periferie di palazzi senza identità che sembrano confondere e spazzare anche chi ci vive. Mi immagino un posto simile nel rigido inverno continentale e penso quanto possa essere deprimente. Una qualsiasi città tedesca in cui molti turchi sono emigrati offre forse più distrazioni, chissà?

Trovo l'albergo, che non è così male come mi avevano fatto pensare i due compagni di viaggio dicendo che era vecchio, anzi mi piace. Mi godo un giro per la città indaffarata di gente che compra e passeggia. Nella piazza davanti alla moschea osservo gli uomini più anziani con i caratteristici pantaloni alla turca:La moschea di Diyarbakir giocano, conversano, aspettano l'ora di cenare.

Mi ritrovo in un ristorante molto frequentato in una situazione esilarante. Ho ordinato con l'unico metodo rudimentale possibile, indicando i piatti dal banco perché il menù in turco era incomprensibile. Avevo cercato con buona volontà di decifrare tramite alcuni nomi, ma l'operazione si faceva lunga e soprattutto non prometteva risultati apprezzabili. Mi ispirava un piatto di verdure che avevo visto in vetrina. ma quando è arrivato sul tavolo assieme a un altro piatto pieno di miele – completo di favo per giunta – ho capito immediatamente che le verdure facevano parte del menù della colazione. Il cameriere che è venuto a versarmi del tè non ha fatto che confermare il sospetto, ma orami era troppo tardi per disfare e soprattutto era troppo complicato da spiegare facendo affidamento solo sui segni.

Ma non è tutto: oltre alla "verdura" volevo prendere delle melanzane ripiene, che ancora una volta ho indicato dal banco. Avevano un aspetto invitante, ma quando è arrivato il piatto cucinato davanti a me mi sono accorto dell'errore madornale. Si trattavadi fegato grigliato! Il cameriere, depositando il fegato accanto alla colazione ha espresso con una smorfia non troppo dissimulata tutta la sua disapprovazione per il modo barbardo di mangiare di uno straniero come me. E' stata una cena del tutto particolare, in effetti, e oltre tutto sono stato a disagio con tutti quei camerieri che ronzavano tra i tavoli in continuazione e creavano agitazione.

Qui mi sembra di essere in una regione diversa del mondo, non più nel Medio Oriente, ma in Asia. Mi ritorna alla memoria l'affermazione fiera e convinta di un compagno di viaggio ieri, probabilmente pronunciata sulla scorta di un luogo comune o di una nozione insegnata, che la Turchia è Europa. Quella frase, ora che la ripenso, deve aver provocato nel mio inconscio un senso di usurpazione.

Passo la serata leggendo nella piacevole entrata dell'albergo su una comoda poltrona, circondato da una musica che viene dal televisore e dal parlare della gente. Dopo un certo tempo vengo coinvolto da alcuni ragazzi che sono venuti a sostenere un concorso di ammissione all'esercito, l'istituzione più nazionalista di questo paese.