Palmarin

Il viaggio per Palmarin si svolge attraverso un paesaggio fantastico che mi fa sentire di essere in Africa per davvero anche grazie al panorama della natura. Attraversiamo un tratto di affascinante savana secca, punteggiato di ampie acacie e maestosi baobab. Qui ci imbattiamo in alcune mandrie di bovini dalle impressionanti corna lunghe e arcuate, guidate da ragazzini i quali le fanno emergere lentamente dalle nuvole di polvere che sollevano. Il pulmino, che già l'autista ha dovuto fermare per affrancare la portiera con una corda, ora arranca tra le buche del fondo stradale con preoccupanti rumori di ingranaggi logori. Ed entriamo in vista di strisce di acqua che si perdono in lontananza e si alternano ad altri strati rossicci, marrone e ocra delle terre e delle sabbie e ai verdi vivi o spenti della vegetazione. A volte si aggiunge anche il bianco delle strisce di sale per formare una tavolozza in continua evoluzione dalla prospettiva del mezzo in movimento: mi sembra di essere incantato con l’occhio appoggiato a un affascinante caleidoscopio naturale.

Scendo a Facao, il villaggio centrale dei cinque che compongono Palmarin. Leggo con un sorriso di piacere il messaggio di Dielani e sua moglie, che mi salutano da Joal e mi incammino verso l'accampamento che si trova fuori dal villaggio sulla spiaggia selvaggia, dritta per chilometri in entrambe le direzioni, spoglia e quasi disumana nella sua solitudine abbandonata. L'aria è totalmente diversa da quella che ho respirato nell'affollato porto di pesca da cui vengo, come lasciava presagire lo spostamento sulla pista rossiccia che mi ha separato da tutto dopo le distese selvagge. Ora è tutta da essere assaporata e vissuta, la vera Africa della natura.

Non ero più abituato a questo livello di comodità, ma questa bella capanna ha acqua salmastra corrente e l'elettricità. Una distesa di fango secco, che si inonda durante la stagione umida, separa l'accampamento dal villaggio da cui emerge il campanile della chiesa, sormontato da una croce bianca. Come prima venivo assordato dall’altoparlante che urlava una chiamata alla preghiera all'altezza più o meno delle mie orecchie, ora devo sopportare una frastornante scampanata.

Di sera si accende in cielo un quarto di luna sdraiato con le punte in alto che si riflette sul mare di un nero profondo, ma scintillante per una striscia d’argento davanti a me. Nonostante la loro bellezza, rimangono acque fredde e inospitali per i pescatori che sono partiti al lavoro, chissà in quanti, in una notte come questa. In lontananza, anche da questo paradiso di solitudine, si scorgono le luci di Dakar o Rufisque. La spiaggia è deserta come prima, ma ora lo sembra ancora di più.

12 febbraio. Passeggio sulla infinità della spiaggia, verso una costruzione che appare in lontananza, forse un faro o delle imponenti attrezzature da pesca. Il gentile sciabordio spazza continuamente numerose conchiglie a formare composizioni sempre diverse. Oggi – sarò cambiato io? – la spiaggia non è più quell'entità inquietante che percepivo ieri, ma una presenza amica che mi accompagna e mi fa sentire infinitamente libero. Libero anche dai pensieri che mi hanno turbato durante la notte, per l'esperienza di ieri sera.

Ho chiesto due panini con fagioli in un bugigattolo e, dopo confabulazione con la padrona, il giovane che ci mi aveva portato mi chiede il doppio del prezzo normale. Mi dichiaro stupito e qui parte la sceneggiata: lui invoca il nome di sua madre e si dice offeso del mio sospetto; ma io ribatto che non ho solo il sospetto, ma la certezza, perché se un piatto di thieboudienne costa 400 CFA, mi spieghi lui come un panino può costare 500? La gente intorno è divertita e sono rassicurato sui miei argomenti dal giovane che annuisce con il capo mentre parlo. Aggiungo che sono razzisti verso i bianchi, perché se io compro in un negozio la stessa merce di tutti, ho il diritto di essere trattato come loro. È una questione di principio! Nel momento in cui cerco spasmodicamente di integrarmi e comprendere la gente e il paese, questo atteggiamento mi fa sentire rifiutato e diverso.

Avvicinandomi a quelle forme minacciose che vedevo nell'oceano, ho capito che si tratta di un relitto, ormai qui da 20 anni e spinto dalle correnti verso la costa. Arrugginito e spezzato in due com’è, fa paura. Mi sento salutare da dietro ed è Osman, uno dei ragazzi che ieri mi aveva invitato nel giardino di casa sua a bere il concentrato tè senegalese con i suoi amici. Oggi che è sabato sta allenandosi sulla spiaggia con una corsa a piedi nudi sulla sabbia. Dopo aver parlato un po' camminando, decido di seguire il suo passo di corsa e trotterelliamo uno accanto all'altro paralleli alle dolci onde.