Joal e l'isola di Fadiout

Con un sept places arrivo a Joal e prendo un albergo che non è male, ma come tutto il paese è senza corrente e di conseguenza senza acqua che probabilmente ha bisogno di pompe elettriche. Ciò vuol dire che per lavarsi bisogna attingere dal pozzo un secchio d'acqua e di sera muoversi nella stanza alla luce di una tremolante candela.

Accanto allo stadio i ragazzi si allenano nella lotta senegalese, con evoluzioni di corpi muscolosi che si avvinghiano in un rituale di mosse studiate dalle quali emergono scatti di forza bruta. Il nero dei corpi è messo in risalto dagli spruzzi di sabbia di cui si cospargono i lottatori durante le pause tra uno scontro e l'altro per riprendere fiato e per studiare l'avversario. Appiccicati alle cosce umide di sudore i granelli biondi segnano strisce chiare sulla pelle nera.

La spiaggia non ha niente a che vedere con quella con che ho lasciato a Toubab Dialao, che rimpiango. È stretta, grigia, ingombra di alghe gettate dal mare che impregnano l'aria di un forte odore. Mi imbatto in un gruppetto di giovani pescatori con i quali scambio qualche battuta. Sono di Mbour ma vengono qui a rinfoltire i ranghi dell'enorme esercito di piroghe che ogni giorno partono all'assalto dei mari. Con la loro piccola barchetta si spingono a una distanza di addirittura 70 km dalla costa, armati solo di un piccolo apparecchio gps. Nella fascia più vicina al continente ormai il pesce è estinto.

Mi invitano a mangiare con loro, poi il più comunicativo Dielani, mi invita a casa sua dove vuole farmi incontrare la moglie. Arrivo in una stanzetta illuminata dalla luce di una candela, ornata di tessuti appesi alle pareti e con un materasso per terra che fa da letto e divano. In questo decoroso nido vivono un numero imprecisato di persone che completano il loro nucleo familiare: ci sono una cognata dai lineamenti fini e la suocera, più diversi bimbi che mi guardano incuriositi. La più piccola non ne vuole sapere di ricevere nemmeno una carezza, perché appena mi avvicino si ritrae terrorizzata e scoppia in un disperato singhiozzo.

10 febbraio. Di notte ho sentito soffiare un forte vento e mi prefiguravo una giornata uggiosa, ma al risveglio ho trovato un cielo completamente spazzato e un sole che splendeva nella sua massima gloria. In questo splendido quadro inondato di luce, anche riflessa dal braccio di mare che con i flussi e i riflussi della marea si insinua tra le mangrovie, mi incammino per l'isola di Fadiout.

È un'isoletta che si direbbe fatta di conchiglie, dato che per terra si vedono solo queste. Ci vive una comunità mista di gente cristiana e musulmana, in perfetta armonia. I cristiani, più numerosi, portano una coppola mentre gli altri il turbante e la tunica. Ci si arriva attraversando un lungo ponte di legno di recente fattura che si stende sopra le acque. La luce è abbagliante. Sulla sinistra l'isola cimitero è sormontata da una grande croce bianca nel mezzo di tante tombe, mentre i profili degli enormi baobab sorgono qua e là a mostrare un'apparente solidità della vita.

L'isola è davvero carina, fatta di casette basse in muratura che hanno sostituito le capanne di un tempo. Un tranquillo mercato attira le donne che vengono a rifornirsi per il pranzo e comprano gli ortaggi esposti sui banchetti. Un altro spazio dominato da un baobab spoglio è animato dalla presenza di anziani, donne che ciarlano, il gallo che rincorre la gallina, una statua colorata di Gesù addolorato, mentre il campanile della chiesa svetta poco oltre, bordato da una cornice di buganvillea di un intensissimo colore.

Mi spingo fino alla sponda che si affaccia sulla vasta distesa di terre scoperte dalla marea, la quale ha lasciato qua e là solo qualche pozza d'acqua. In lontananza le donne sono indaffarate con le loro grosse calabasses a risciacquare il miglio. Nella luce del giorno che sta diventando quasi lattiginosa si muovono come figurine di ombre cinesi.