L’aeroporto di Catania

Non sarà facile per me dimenticare quell’avviso all’aeroporto di Catania dove si invitavano i passeggeri, una volta portata a termine l’accettazione e completate le procedure di controllo attraverso il rilevatore di metalli, a dirigersi verso l’uscita indicata dal tabellone per il proprio volo. Perché? Semplicemente perché era espresso completamente in italiano, al cento per cento, in un’epoca in cui ormai dispero che qualcuno dimostri sufficiente coerenza per esservi fedele.

Invece, senza discostarci dall’ambito aeroportuale, il mio morale è crollato quando a Orio al Serio un annuncio ha ricordato ai passeggeri che non era permesso più di un pezzo (!) di bagaglio a mano, naturalmente dopo aver avvertito che, passato il check-in e il metal detector, ci si doveva dirigere al gate.

Devo confessare questo mio debole: tra me e me disprezzo la bocca da cui escono parole in italiano frammiste a inutili termini in inglese e ancor più il foglio di carta che asseconda questa incresciosa moda. Forse l’interlocutore o lo scrittore credono di farsi belli e acquisire una levatura di intellettuale internazionale acculturato e alla moda, ma ai miei occhi il comportamento rivela ben altri aspetti della personalità: pigrizia, debolezza di carattere, servilismo, a volte anche ignoranza.

Ma purtroppo questa è la tendenza. Non c’è giornalista che vi resista, non c’è sito internet che non ci cada, non c’è annuncio pubblicitario o insegna commerciale che ne sia indenne. Non parliamo delle bestie nere: i consulenti aziendali e gli addetti all’ambito informatico e tecnologico, casi in cui mi domando se abbia ancora senso usare l’italiano, anche se una riflessione più accurata mi induce a dare risposta positiva, perché a molti l’inglese piace sfoggiarlo, ma non lo sanno parlare.

Ci sono parole straniere che si sono prepotentemente aperte una strada nel nostro linguaggio moderno ma che vengono utilizzate a sproposito, sono mal pronunciate o addirittura scritte scorrettamente. Chi parla di management ricorre a fantasiosi quanto ridicoli accenti pseudo inglesi o americani, ma senza una parvenza di pronuncia corretta, a cominciare dall’accentuazione tonica. In un bando della Regione Lombardia, infarcito di parole inglesi in un modo davvero fastidioso anche per chi non è insofferente come me, ho trovato scritto comunication e ho avuto conferma che volendo strafare,l’autore si è tirato la zappa sui piedi.

A volte i forestierismi, senza conoscenza di causa, sono usati con un significato che si discosta da quello della lingua originale. Sono noti i casi di smoking, flipper e altri, ma la parola del momento è mail. Ho avuto occasione di accorgermene revisionando una traduzione nostrana, in cui l’autore credeva di poter utilizzare impunemente senza cambiamenti una parola che sembrava così inglese. Ma se cambiamo il senso delle parole straniere, perché non ci sforziamo di crearne di nuove nella nostra lingua?

Quello che preoccupa non è tanto l’invasione straniera, quanto la mancanza di orgoglio per la nostra lingua, il principale vettore di cultura nazionale ed elemento di definizione del nostro popolo. Ammetto di non seguire la radio o la televisione italiana, ma sono costantemente sorpreso dal numero di rubriche sulla radio spagnola dedicate alla lingua e mi domando se l’interesse che destano là troverebbe un equivalente nel nostro paese. In diverse trasmissioni spagnole, di lingua si dibatte e si discute come tema di intrattenimento, alla ricerca di parole regionali, di parole moribonde, pure in un paese dove la battaglia dell’autonomia locale si gioca soprattutto con la carta della lingua regionale.

In Francia, in Spagna e in altri paesi esistono accademie per la normazione della lingua che godono di ampio prestigio e sono considerate l’autorità in materia di lessico e di grammatica. Anche in Italia ne esiste una, anzi dovremmo essere fieri di sapere che l’Accademia della Crusca è stata fondata prima tra tutte nel 1583 ed è servita da modello per le altre. Il loro sito internet sembra scritto in italiano: non c’è una home page, ma una pagina d’entrata, non si parla di Faq ma di domande ricorrenti. Tuttavia, tra le parole nuove spiegate torna alla carica l’inglese: l’Accademia definisce il significato di no global, bipartisan e gift shop.

Tocca alla Crusca spiegare parole straniere o non è piuttosto il compito di un buon dizionario bilingue? Così facendo non fa che sancire l’entrata ufficiale e dalla porta d’onore di nuovi forestierismi nel lessico italiano. Sarebbe invece opportuno che un’Accademia linguistica fosse attiva nel proporre l’italianizzazione di parole straniere, soprattutto di quelle che la gente usa inutilmente, magari prendendo spunto da brillanti soluzioni trovate in altre lingue latine. I casi del francese e dello spagnolo possono essere d’esempio perché esiste una maggiore protezione e una maggiore coscienza linguistica.

In Francia, per citare alcune trovate, hanno adattato le iniziali di Faq a significare foire aux questions, fiera delle domande, invece che frequently asked questions e così tutti sono salvi e contenti. Oppure hanno coniato il courriel sul modello di email e lo usano. Non sempre sono soluzioni che trovano applicazione diretta, ma è possibile ispirarsi e magari procedere parallelamente alle lingue sorelle dell’italiano.

A questa stregua dovrei sentirmi più in pace con me stesso e con l’interlocutore che usa supportare un progetto o cancellare un volo aereo, perché almeno sta usando una parola italiana. Gli devo riconoscere questo merito, se non quello di ricorrere a un verbo che magari gli sembra troppo italiano, come sostenere o sopprimere. Appena introdotto al mondo dell’informatica, mi sembrava strano dire salvare un archivio (file per chi parla in italiano), ma ora riconosco che sia stato un lodevole sforzo di adattamento che ci evita di usare ora chissà quale forestierismo.

Il problema in generale non sono i verbi, ma i sostantivi e sono numerosissimi gli esempi che ci vengono dal linguaggio della comunicazione a tutti i livelli. Se si inizia a parlare di un nuovo prodotto o di un una nuova situazione stabilendo una determinata terminologia italiana, si segna una tendenza nel pubblico che verrà seguita. Ma se già in partenza i comunicatori parleranno di touchscreen invece che di tattile o schermo a sfioramento, è evidente che anche il gregge seguirà il cattivo esempio.

Sottolineo come il ruolo d’esempio sia fondamentale, ma non viene preso sul serio. Anzi l’esempio è purtroppo negativo, come ho constatato recentemente nel leggere un avviso dell’azienda di trasporti bergamaschi Atb che parla di ticket quando l’uso corrente è biglietto (almeno qui in controtendenza con i francesi che parlano di ticket,mapronunciato alla francese). Ho constatato contestualmente che Atb, che parla in inglese nei suoi avvisi in italiano, non scrive nemmeno un avvertimento in vero inglese alla fermata dell’aeroporto per dire ai passeggeri internazionali che il biglietto non si può comprare in vettura.

Purtroppo sembra che il linguaggio commerciale e pubblicitario non sia d’effetto se non è inglese. È di moda invitare a un convegno con un messaggio a oggetto save the date, ma con me questo è il modo migliore per fare cadere di colpo l’interesse per l’evento. Anche in una città comune come Bergamo quando si inaugura un negozio devono scrivere opening soon sulle vetrine ancora oscurate: vogliono dare ai passanti l’illusione di trovarsi a New York e di essere così al centro del mondo. Ma chi ha detto che è quello il centro del mondo?

Un irlandese mi rappresentava con preoccupazione l’influenza culturale degli Stati Uniti sugli altri paesi e mi diceva: “Tutto quello che si dice e si fa al di là dell’Atlantico passa da questa parte e la gente segue. Almeno voi nel sud dell’Europa avete la barriera della lingua.” Mi ero sentito sollevato a queste parole, ma dopo dieci anni ho una visione più disillusa, vedendo che a volte l’influenza tocca addirittura la sintassi con effetto più subdolo e devastante: grazie per non fumare, chi fa che cosa.

La lingua è una creazione in continuo movimento e non dovrei scandalizzarmi di vederla attaccata da più fronti sotto gli effetti dell’ariete della globalizzazione. Anche nel passato ci sono stati flussi di vocabolario e influenze di altra natura provenienti dalla cultura dominante del tempo, eventualmente in un determinato campo. Tuttavia oggi il passaggio è diretto e immediato, e soprattutto di portata inaudita, per lo più senza italianizzazione e i pericoli a cui è esposta la nostra lingua sono enormi. Purtroppo non sono altro che la manifestazione linguistica degli effetti a cui è esposta la nostra cultura nazionale. Se si parla di hamburger, è perché si mangia hamburger e si portano i bimbi come premio al centro commerciale (shopping center per chi parla italiano) per mangiare nel ristorante di fast food.

Ascoltavo un’intervista a un politico francese circa decisioni comunitarie e, parlando di programmi di aiuto, gli veniva in mente un termine inglese usato nella burocrazia di Bruxelles. Sebbene abbia avuto momenti di esitazione nel cercare una traduzione, si è ben guardato dal pronunciarlo. Vorrei tanto che molti nostri politici, giornalisti e funzionari quando hanno sulla punta della lingua un termine corrente in inglese si spremessero le loro atrofizzate meningi e uscissero con una parola italiana.

Lo so che non c’è molto da aspettarsi in un paese il cui lo stesso apparato amministrativo pubblico è organizzato (nell’Agenzia delle entrate) in uffici di staff, settore audit interno, compliance, riviste online e team; dove i bambini si chiamano Kevin e Jessica; dove la gente parla di legge sulla privacy anche quando il testo normativo si riferisce alla riservatezza, dove i giornali scrivono di authority o di Ministero del welfare quando i suoi nomi veri sono Autorità e Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali. Ma ci voglio comunque provare. Non odio l’inglese, lo amo. Lo leggo, lo ascolto, lo parlo e lo insegno. È la lingua straniera che ho imparato per prima e che adoro usare, ma non quando parlo italiano.