La fuga

Come si poteva prevedere, appena aperta la porta di primo mattino, si sono precipitati a osservarci parecchi bambini, poi anche degli adulti tra cui quello che doveva diventare l'incubo della giornata. Quest'uomo, parlando qualche parola in inglese, ci vuole portare a casa sua e ci vuole trattenere anche per pranzo. Noi ci scusiamo, abbiamo fretta, un percorso da seguire e Sarah deve prendere stasera un aereo per Aden.

Non possiamo permetterci di indugiare e non rispettare la tabella di marcia, ma lui non intente ragioni. Fa mostra di un'insistenza cieca e immotivata senza precedenti. Dice che si tratterà di una sosta di solo one hours, tradendo nell'errore grammaticale la sua reale idea di una lunga permanenza a casa sua. Le ragazze sono innervosite, rispondono in arabo alle sue insistenze in inglese, rendendo ancor più evidente la scollatura sul piano della comunicazione. Mi sembrano sull'orlo di uno sfogo per sfinimento.

Cerco di trattenerle, perché sarebbe spiacevole tradire l'ospitalità ricevuta. Ma l'insistenza è indefessa, non intende scuse e diventa aperta maleducazione. Si deve trattare di orgoglio ferito, soprattutto davanti a tutti i suoi compaesani, o forse il pensiero che nutriamo paura nei confronti della sua gente e che questo ci trattiene dall'accettare le sue offerte.

Non abbiamo più parole, con sorrisi e strette di mano, seguo le ragazze che già sono scappate avanti. È stata una partenza così frettolosa che abbiamo persino trascurato di ringraziare dovutamente coloro che ci avevano gentilmente accolto. Ma il gruppo capeggiato dall'uomo che parla inglese, ci segue e continua a gridare di salire al villaggio. Anche quando siamo ormai scesi di parecchio, sentiamo ancora la sua voce gridare di rimanere. Un incubo.

Riflettiamo a lungo tra di noi sull'incidente. Siamo dispiaciuti per non essere riusciti a congedarci degnamente da chi ci aveva invitato. Ma ancora di più so di avere deluso le aspettative di tutti, soprattutto quando un bambino che scende con noi mi dice: "Non siete stati bene da noi, se no sareste rimasti". Gli spiego chiaramente la situazione, ma c'è un problema culturale alla base, che tocca la concezione del tempo, dell'appuntamento, della fretta, dell'ospitalità, la concezione a loro estranea di escursione in montagna…

Scendiamo fino alle tre case di Rishe e da qui proseguiamo la marcia nel fondovalle che digrada costantemente verso un calore e un sole sempre più intensi. Arriviamo estenuati e assetati ad un villaggio che crediamo essere l'inizio della strada asfaltata. Ma non è ancora quello. Ci dobbiamo comunque fermare per bere all'ombra e mentre riposiamo spuntano alcuni visi alle finestre che ci invitano ad avvicinarci alle case.

Una donna avvenente, dail naso perfetto, gli occhi nerissimi e un velo sulla testa ci fa sedere sulla soglia di casa sua. Per lei è impossibile accogliere all'interno un uomo estraneo, ma stiamo comunque all'ombra e insiste perché mangiamo. Ci porta, lì fuori dall'ingresso, un ottimo pranzo del venerdì, di riso, mlukhiyye, carne in brodo, rucola e bamia, un vero ben di Dio. Parla intanto con noi da dentro la casa e rivolge alle ragazze anche domande su di me, a cui rispondo io direttamente.

Riflettiamo sulla bellezza di questo gesto profondamente ospitale, mentre nei nostri paesi l'individualismo moderno constringe l'uomo a vivere quasi esclusivamente per sé stesso. Chiunque in Europa avrebbe paura di esporsi al rischio del ridicolo o del giudizio degli altri nel mostrarsi spontaneo e attento alle esigenze del prossimo, ovvero invocherebbe un vago rischio di pericolo nell'accogliere uno sconosciuto dalla strada. Invece qui accogliere è un dovere e al tempo stesso un onore.

Da noi molti misurerebbero l'esborso monetario, non perché tutti siamo spilorci in Europa, ma perché tendiamo a misurare il nostro valore come persone tramite il denaro. Se qualcuno mi truffa e mi frega dei soldi, la cosa diventa un attentato all'onore; se guadagno meno di te, mi sento inferiore; più ricchezza riesco a ostentare, più affermo la mia posizione sociale; se ho guadagnato in borsa, ho realizzato me stesso; se ho fatto un cattivo affare, rimango deluso… Non capiamo che in fondo sono solo soldi, soldi, niente in confronto alla vita!

Prendiamo un'auto per Hanake e raggiungiamo la strada asfaltata. Mentre aspettiamo il trasporto per Mahwit i bambini - saranno almeno 15 più o meno grandi -  si mettono in fila seduti davanti a noi per osservarci, senza stancarsi. Il viaggio per Mahwit lo facciamosul cassone per ammirare il più possibile paesaggi vasti e immensi che si colgono percorrendo la strada da una cresta all'altra. Prima di arrivare al termine della lunga corsa si mette a piovere a catinelle. Dobbiamo entrare in cabina stringendoci e in un secondo tempo ritiriamo anche gli zaini ormai fradici per non rovinare i documenti.

Prendiamo un'auto per Sanaa. Sarah non ha più speranze di prendere il suo aereo stasera. Tiro fuori il sacco a pelo e ci raggomitoliamo sul sedile in cerca di caldino dato che siamo tutti bagnati e infreddoliti. Io scendo a Tawila e lascio proseguire le ragazze. Prendo una camera nello scarso albergo con bagno senz'acqua corrente, ma rispetto a ieri sera almeno un bagno c'è e mi lavo per quello che posso con l'acqua fredda di una pentola.