Il Lago Rosa

1 febbraio. Lascio il porto di Kayar e il suo odore di pesce che impregna l'aria. Sono lieto di liberarmi della gente del cosiddetto Comité d'accueil a cui ho fatto notare che un'accoglienza così lascia una cattiva impressione nei visitatori. Ma non comunque è questo il loro intento, cercano solo l'interesse personale.

Con un'auto che versa in condizioni più che pietose, raggiungo Bayakh dove cambio mezzo. A ogni fermata l'autista doveva scendere per tirare uno strano meccanismo a cordicella che apriva dall'esterno le portiere ridotte a lamiera arrugginita, mentre la gommapiuma dei sedili sembrava umida e rilasciava un sentore di pescheria.

 

Il secondo tratto di strada si sviluppa su un percorso che potrebbe chiamarsi delle montagne russe tanto è accidentato e costellato di buche. L'autista, incurante di risparmiare le sospensioni ormai completamente devastate, si impegna in una gincana tra gli ostacoli e per fortuna che l'aridità di questa stagione ci salva da un pantano che sarebbe insormontabile. Anche qui le parti dell'auto stanno insieme in virtù di bizzarri congegni a lacci, mentre il motore sferraglia in modo preoccupante sotto il pavimento. Carico com'è, questo mezzo sta facendo del proprio meglio, considerata l'età che si avvicina facilmente al mezzo secolo. Condivido con un altro passeggero una porzione del sedile accanto al guidatore e mi devo strizzare su un lato per lasciargli il campo libero ogni volta che cambia marcia.

Il lago non è idilliaco come mi faceva immaginare il suo nome romantico. È uno specchio d'acqua che assume sì un colore particolare, ma è piuttosto uno spento riflesso violaceo. Ciò che è interessante in questo ambiente è lo sfruttamento della salina che dà lavoro a una miriade di persone.

Verso sera nessuno sta lavorando sull'acqua ma posso stimare la dimensione delle manovre osservando il numero di barchette ormeggiate. Si stanno svolgendo le operazioni di fine giornata, come il carico dei sacchi di sale. Mentre i trasportatori chiacchierano tra di loro, i caricatori spostano a spalla pesantissimi sacchi dalla riva ai camion.

Un giovane mi rivolge la parola in inglese, segno che è probabilmente un gambiano. Nella salina lavora infatti molta povera gente proveniente da paesi vicini, operai stagionali che accorrono dalla fine dell'inverno fino al termine della stagione umida, l'hivernage, per guadagnare un gruzzoletto in cambio di duro lavoro. Le condizioni, come si può immaginare, non sono tra le più facili: la salinità corrosiva dell'acqua, per non parlare del contatto del sale estratto con la pelle obbligano a una protezione con uno strato di burro di karité che scherma in parte il feroce attacco sui tessuti vivi. Attorno ai lavoratori del sale ruota un numero di ambulanti che offrono quello che serve per vivere e lavorare.

Sulla riva si accumulano i mucchi di sale non ancora insaccato, alcuni candidi, altri ancora scuri di melme. Una o due persone a bordo di ciascuna barchetta, armate di secchi e una lunga pertica, si lanciano al raschiamento del fondo salino. Ne ricavano un fango putrido che l'azione dell'aria e del sole sbianca nel giro di un giorno.

Soffia un vento atlantico dalla costa oltre il cordone litoraneo. Le correnti d’aria che sfiorano la superficie del lago schiumano il sale in superficie e formano dei fiocchi di schiuma soda che viene portata sulla sponda e oltre, impigliandosi in tutti gli sterpi, quasi una neve artificiale che dà al paesaggio tropicale un tocco di irrealtà.