Il lago d'Aral

ImageLa porta della stanza è rimasta quindi aperta sul corridoio tetro. Nel cuore della notte mi sono svegliato per bere un sorso d'acqua e in quell'istante ho visto profilarsi nel vano una sagoma allampanata dal movimento traballante. Gli chiedo un po' confuso: "What's up?" ma lui farfuglia qualcosa che non capisco. Artur si sveglia e gli dice qualcosa in russo: era un ubriaco che non trovava più la sua camera.

Alle 7 mi sveglio per prendere il pulman per Moynaq delle 9 dopo una colazione con uovo e salsiccia, che però non ho avuto il coraggio di toccare.

Già ieri sera sentivo degli strani dolori nella schiena, avvisaglie del malanno che oggi si sarebbe abbattuto su di me. Come mi alzo dal letto capisco di avere un lancinante dolore muscolare nella fascia muscolare a metà della schiena, dovuto a un colpo di caldo, presumo. Saluto un Artur che si rigira nel letto con una specie di grugnito, e mi accorgo che riesco a mala pena a sollevare il pesante zaino e mettermelo in groppa. Esco per raggiungere la fermata dei mashrutka cittadini verso la stazione.

Avevo sottovalutato di molto il mio problema. Appena si ferma il piccolo mezzo e isso al suo interno il bagaglio, riesco solo con grande difficoltà e atroci dolori a piegarmi per entrare. Una volta all'interno non so più come stare agganciato alle maniglie per ridurre le laceranti fitte muscolari che mi contorcono il viso in smorfie di dolore e mi fanno letteralmente stringere i denti.

Sono sicuro che l'autista sta osservando questo strano teatro nel suo specchietto retrovisore, ma non mi curo di incrociare il suo sguardo per accertarmene, tanto sono concentrato sulla mia sofferenza. A momenti devo bloccare la respirazione per darmi un attimo di tregua.

Al capolinea vicino alla stazione dei treni, trovo un autobus in partenza per Kungrad, dove cambierò per Moynaq. Verso le 11 infatti sono arrivato a metà strada e trovo subito il secondo pulman, questa volta davvero malandato, per l'ultimo lungo tratto. In tutto sono 275 km, in un primo tempo attraverso tanti campi di cotone e alcuni rari di girasoli in fiore, poi di sterpaglie ravvivate da macchie colorate di arbusti vaporosi come erica.

ImageHo scoperto nel frattempo un trucco per limitare i dolori del mio devastante mal di schiena: trattenere il respiro con la cassa toracica piena, ogni volta che devo affrontare un cambio di posizione o un sobbalzo del mezzo. Nella maggior parte delle volte funziona, in altri casi subisco la stilettata senza rimedio.

A Moynaq mi incammino dalla stazione dei pulman lungo la strada credendo di trovare presto il centro dell'abitato, ma capisco che le file di case che costeggiano i lati della strada continuano indefinitamente. Sono casette che hanno un vago sapore di mare, basse e allungate, con mucchi di paglia accumulata nel cortile cintato. Il sole che batte e la sabbia ai lati della strada suggeriscono nuovamente l'ambiente marino e mi sembra di fare ritorno a casa dopo una mattina passata in spiaggia. Ma il mare non c'è più…

Fermo un'auto. Dopo aver percorso la lunga strada principale, l'auto entra in polverose traverse e mi deposita davanti a un edificio senza nome, senza indirizzo, circondato da sparse costruzioni semidistrutte e abbandonate. Così è la città di Moynaq, ben peggio di quello che era la già desolata Nukus, se per caso non mi fosse bastato. L'albergo naturalmente ha solo me come ospite. Il giovane cazaco che se ne occupa mi conduce al primo piano salendo per una scala malridotta al cui pianerottolo sporge una cassa elettrica con enormi cavi scoperti che ne escono.

ImageIl corridoio è spettrale. Solo il vento rovente lo percorre a raffiche, soffiando tra le finestre aperte o attraverso i vetri infranti, facendo cigolare le porte. L'unico bagno disponibile, senza acqua corrente, si trova annesso a un'altra camera del piano, sul cui armadio si trova un minaccioso vespaio.

Quando vengo lasciato solo, percorro il corridoio spingendo le porte delle camere, quasi tutte aperte. Alcune sono totalmente abbandonate, come quella del bagno, a cui è addirittura crollato il terrazzino; altre sono "pronte" ad accogliere gli intrepidi che desiderano passare una notte a Moynaq, non troppi a giudicare dalle presenze. Ero del tutto preparato a questo ambiente e cerco di viverlo come l'esperienza interessante che sicuramente è.

Non ci sono ristoranti o locali pubblici qui, solo un negozietto penoso che vende una decina di prodotti e dove compro un'anguria. Ne mangio una buona metà. Un delizioso cucciolo di cane con orecchie enormi gira saltellando a destra e a sinistra nel giardinetto e si pappa tutti i semi che scarto. Poi fa ritorno verso il grande cane lupo al cui confronto appare di dimensione comicamente minuscola.

Dopo essermi ristorato, vado verso quella che era la sponda del mare d'Aral. Ma già prima di arrivare a quel punto fatidico, il pensiero che 50 anni fa la città si affacciava su un enorme lago salato e ora invece è circondata da deserti sterili e polverosi esercita una forte impressione sulla mia mente. Sento un vuoto enorme.

Poche centinaia di metri attraverso altri edifici trasandati o anche cadenti, un sentierino nella sabbia, e mi trovo al monumento commemorativo del lago. Sembra un dito di accusa inclinato, puntato verso il mare che c'era. Guardando da questo punto di osservazione verso il bacino precedentemente occupato dalle acque ristoratrici, si vede un incavo e a perdita d'occhio, una pianura leggermente mossa invasa da ciuffetti di erbe; poi i relitti dei pescherecci abbandonati sulla sabbia, ormai arrugginiti e spettrali, come lo è tutta questa città.

Un pannello spiega gli effetti disastrosi sul clima, sull'economia della regione, sulla salute degli abitanti, dovuti al ritiro delle acque deviate per scopi irrigui.

Uzbekistan0508Scendo sul fondo passeggiando tra le carcasse sulla sabbia ricca di frammenti di conchiglie. Le forme cupe delle imbarcazioni arrugginite danno un'idea concreta del tragico disastro ambientale. Più di una volta dirigo lo sguardo verso l'alto al livello dove poco fa mi trovavo, immaginandomi con un po' di angoscia improvvisamente sommerso dal precedente strato di acque e camminando sul fondo di un mare immaginario improvvisamente riformatosi.

Ritorno verso l'antica sponda costeggiando rottami di barche, cammino lungo la strada principale passando accanto a un vecchio cinema teatro. La porta è aperta ed entro a curiosare. Tre bambini si trovano nell'ampio atrio: uno mangia un gelato e gli altri due stano dietro il bancone con uno sfondo di bottiglie di bevande colorate. Nella sala accanto si sente che qualcuno sta giocando a biliardo. È uno spazio smisurato per questi pochi convenuti e si direbbe che si sia rimesso in moto solo nella mia fantasia.

Per queste strade non c'è altro da fare e mi dirigo verso l'albergo, anche se è ancora presto. Da un cortile esce il suono amplificato di una bella musica moderna e decido di stare ad ascoltarla perché restituisce un poco di vita, anche lei del tutto irreale, a questa città morta e a me stesso che qui languisco. Mi siedo sulla condotta del gas, rovente, accanto a una donna anziana con un bambino che attendono il passaggio di un taxi. Osservo cosa succede, o piuttosto cosa non succede, lungo questa strada. Passa una bicicletta, un'auto, qualche persona in lontananza, mente la musica continua a suonare e mi dà un'impressione di un'allegra colonna sonora fuori campo che stride con questo triste film dell'assurdo, il cui vuoto disastroso che comunica deve necessariamente essere essere riempito con qualcosa.

ImageRientrando in albergo, scopro con gioia che si può fare la doccia in una baracca di legno esterna su cui è collocato un serbatoio d'acqua. E' un piacere tanto più apprezzato in quanto insperato. Il cazaco, intanto, dedica meticolose cure al giardino, raccogliendo le foglie fuori posto che macchiano la terra nuda, assurda preoccupazione all'interno di una struttura che avrebbe bisogno di ben altro per essere appena vivibile.

ll cagnolino viene ora a incontrarsi con le nipotine del giovane che lo fanno giocare e lo stuzzicano fino a farlo innervosire. Io mi sento ormai sopraffatto completamente dal vuoto di questa città, svuotato come lo è il bacino che anticamente accogieva il bel lago pescoso e benefico; mi muovo anch'io a un ritmo che mi pare rallentato.

Prima di cenare torno al monumento per riammirare il panorama alla luce del tramonto. Un vecchio si affaccia solitario alla ringhiera, volto verso il mare, pensieroso. Quando mi vede mi dice che era uno dei marinai che lavoravano sui pescherecci come quelli qui sotto arenati. Ma ora, traccia per terra con un bastone, l'acqua che è rimasta si trova a ben 150 km da qui. Poi mestamente se ne va, solo.

Ceno con il piatto di uova e patate che mi ha preparato il giovane, poi con il resto dell'anguria che avevo comprato. Sento avvicinarsi un'auto da cui sbarcano due giovani francesi che saluto con un sospiro di sollievo. Ora siamo in tre.

Vanno a sbirciare le barche e quando ritornano per cenare, io ho già finito, ma ho avanzato per loro un po' di anguria. Parliamo, ma di tanto in tanto sono ancora colpito da una fitta alla schiena il cui dolore si è intensificato da un'ora a questa parte.

Decido di stare in piedi e di massaggiarmi mentre conversiamo, parlando di quel nido della stanza con il bagno, che constatiamo è di rondini, non di vespe. Mi parlano della bella atmosfera che hanno trovato alla pensione Bahodir di Samarcanda, paradiso dei viaggiatori. Stanno viaggiando da Pechino a Parigi, via terra fino a Tehran, poi con qualche volo tra Dubai e Beirut dove uno dei due ha i nonni.