Spedizione verso le dune

2 febbraio. La giornata nell'accampamento inizia in modo poco deciso. Mentre io sono in piedi carico di energia per affrontare la sfida che mi sono proposto, gli altri cincischiano pigramente nei preparativi della colazione: qui non è necessariamente quel pasto che si consuma appena svegli. Inoltre i tempi si allungano per la necessità di accendere il fuoco a legna e aspettare che bolla l'acqua per il caffè.

Il cielo è velato e l'aria spazzata da una brezza mattutina che pian piano si scalda. Alle 10 mi metto in cammino e passo dal villaggio per comprare acqua e uno spuntino.

In poco meno di un'ora percorro quattro faticosi chilometri di spiaggia lungo un mare ruggente. I mei passi sprofondano nella sabbia, ragione per cui preferisco camminare sul bagnasciuga. In lontananza stagna una nebbiolina inquietante prodotta dagli spruzzi del mare, ma la spiaggia non è del tutto deserta: ci sono solitari viandanti che si spostano tra i distanti villaggi costieri ed è anche passato un mezzo di trasporto che fa la spola tra di essi percorrendo, in mancanza di una vera e propria via di collegamento, quella strada non tracciata che è la battigia. Il mare in questa stagione è troppo grosso per la pesca e gli uomini sono ancora a riposo.

Arrivato alle capanne tra i filao piego verso l'interno. Cammino per un'ora, ma non sono in grado di seguire il tracciato di nessuna pista. Anzi, nel seguire fantomatici sentieri, incomincio a non essere proprio così sicuro nemmeno della direzione che inizialmente tenevo controllata rispetto al sole. Essendo a metà giornata, la luce è molto alta e quindi difficile da interpretare. Sul percorso ci sono tratti di boscaglia, fichi d'india, arbusti, sabbia; vedo anche tratti leggermente più ampi segnati dal passaggio di un mezzo, ma senza informazioni sulla direzione da prendere non riesco a servirmene.

Sto iniziando a disperare della mia capacità di arrivare alle dune, quando sento delle voci lontane. Non è facile capire da dove vengano, ma alla fine vedo alcuni bambini e cerco di chiedere loro aiuto. In lontananza si consultano tra di loro, poi scappano via in preda al panico. Inutili tutti le mie chiamate al soccorso, con le mani in alto che sventolano sempre più disperate in un'atteggiamento di resa incondizionata.

Riprendo la pista tracciata dalle gomme e la seguo per un bel tratto, ma mi sembra di impelagarmi sempre più in una ginepraio da cui non riuscirò più a uscire. Anzi, immagino che non solo non arriverò alle dune, ma che a forza di seguire i meandri di questi sentieri perderò del tutto anche il mio orientamento e rischierò di non tornare nemmeno alla spiaggia che è la mia unica certezza.

I bambini si sono tranquillizzati e a debita distanza da me hanno ripreso le loro occupazioni. Tento nuovamente di avvicinarli, ma il risultato è lo stesso di prima: corrono via, come se stessero giocandomi uno scherzo di cattivo gusto. Devono davvero essere spaventati dalla mia presenza. Fatto è che mi sento assurdamente solo nella boscaglia e questo è un peso via via più insopportabile, ora che non sono sicuro di come tornare indietro. La suggestione negativa mi attanaglia sempre più e cerco di placarla dicendomi che ho ancora tante ore di luce per ritrovare la strada. Ma l'unica via di uscita è ormai ritrovare la spiaggia e dimenticare le dune.

Basandomi sulla luce e sulla direzione del vento che suppongo soffiare dalla costa all'interno, faccio faticosamente strada verso il minuscolo villaggio di Sally. Provo un senso di sollievo solo al riconoscere qualche tratto del paesaggio. L'oceano che era stato l'elemento inquietante è ora la mia àncora di salvezza perché la linea tracciata dall'acqua è una certezza; la sterpaglia mi ha tradito miserevolmente e non si è lasciata vincere, difendendo come una fortezza inespugnabile le dune di sabbia che non ho visto.

In prossimità della striscia di alberi ritrovo le case che avevo scorto in precedenza e le persone che forse mi avevano visto passare . Mi invitano a sedermi con loro, mentre racconto la mia peripezia inappagata. Un giovane dà avvio al cerimoniale del tè, mentre il gigantesco Mamadou, pescatore dalle mani e dai piedi smisurati, mi accoglie con poche parole, ma modi ospitali: il Senegal è il paese della teranga, mi ricorda.

Si avvicina l'ora del pranzo e quando è pronto il thieboudienne sono invitato con un cucchiaio ad attingere dalla ciotola insieme agli altri seduti intorno nella sabbia. Finito il pasto con uno dei gruppi, anche Mamadou e sua moglie mi invitano a condividere con loro e lo devo fare, anche solo per gradire con un paio di cucchiaiate.

Viene il momento dell'addio da queste persone che mi hanno accolto con semplicità, ma tanto calore; senza grandi cerimonie, ma con sincerità. Ripercorro con uno di loro la distanza sulla spiaggia e arrivo fino a Lompoul.

Mi piace questo villaggio. Non c'è traffico, se non l'auto saltuaria che va a Kébémer, perché la strada finisce alla spiaggia. Trovo i bimbi che giocano come stamattina con le bilie, i contadini che caricano sacchi di enormi carote destinate a Kaolac. I boscaioli scaricano invece enormi sezioni di tronchi tagliati dal cassone di un camion. In una bettola una donnina di bella vita è intrattenuta da un gruppo di uomini.

L'infermiere del villaggio, una specie di farmacista tenutario del dispensario farmaceutico, mi parla della situazione sanitaria della zona. Il paludismo è ancora diffuso e miete molte vittime, soprattutto tra i bambini, anche se ultimamente ci sono grandi sforzi di sensibilizzazione e prevenzione, tramite ad esempio la distribuzione di zanzariere. Permangono ancora grandi ostacoli sul piano culturale ed economico che impediscono di fare ricorso alla scienza medica ufficiale piuttosto che a pratiche tradizionali. Il costo stesso delle prestazioni e dei medicinali, per quanto del tutto abbordabili dal mio punto di vista, sono spesso proibitivi per la gente povera.