Le grotte di Datong

12 agosto. Nel primo pomeriggio ho preso l'autobus per Datong. La credevo una città media, ma ieri sera ho scoperto che ha più di un milione di abitanti.

Alla stazione degli autobus mi sono fermato per mangiare, ma il menù era stampato solo in caratteri cinesi. Mi sono spiegato a parole e mi sono seduto al tavolo aspettando il mio piatto di pasta in brodo. Viaggiare in Cina non è facile perché la lingua oppone una barriera non solo nel parlare, ma anche nella lettura.

Davanti a me un uomo consuma il suo pasto emettendo rumori che lo fanno sembrare una specie aspiraliquidi; tuffa avidamente la testa nella scodella per non lasciarsi sfuggire nemmeno l'ultimo resto di cibo. Con questo accompagnamento sonoro seguo la linea dei miei pensieri e rifletto che non è necessario conoscere la lingua per visitare un paese, ma a me rimane il rimpianto di non potermi relazionare in modo più completo con la gente. Con qualche conoscenza di mandarino mi sento leggermente privilegiato, ma vorrei sapere molto di più e mi chiedo se continuerò a studiare anche senza averne la necessità, soprattutto affrontando il grande scoglio della scrittura.

Il viaggio per Datong prende un corso del tutto inaspettato. Prevedevo di arrivare in città e alloggiare in un albergo, ma  intavolo una conversazione con il mio vicino di sedile. A piccole frasi e a colpi di dizionarietto tascabile ci siamo conosciuti e quando gli ho detto della mia intenzione di stare in un albergo economico, mi ha invitato a stare a casa sua. È un giovane commerciante di rottami di ferro che vive qui da sei anni con un collega, anche se presto prevede di tornare nella sua vicina città per sposarsi. A 20 chilometri da Datong sta il suo appartamento in una cittadina di provincia. Mi invita a mangiare in un ristorante e mi riserva un'accoglienza davvero squisita.

13 agosto. La mattina i due miei ospiti mi accompagnano alla stazione, ma il prossimo treno sarà alle 12.30, quindi decidono di portarmi in auto a Datong. Mi sento a disagio perché per evitare di entrare in città, Haoyu mi paga addirittura il taxi fino alle grotte di Yungang prendendosi carico di me in modo completo.

Il tassista è ormai arrivato al termine del suo turno e cede il volante al socio con cui divide il mezzo. Questo è un giovane molto espansivo che ha voglia di parlare, così mi fa tante domande e mi racconta della città, soprattutto nel momento in cui attraversiamo i quartieri polverosi delle miniere. Gli abitanti sono i poveri lavoratori che passano metà della loro vita nelle viscere della terra e rimango impressionato da questo ambiente annerito dal carbone.

Le grotte buddiste furono scavate nel V sec. durante la dinastia dei Wei settentrionali. Il buddismo arrivò in Cina attraverso la via della seta che collegava Xi'an con Wuwei e la costruzione di questo sito fu in parte patrocinata dalla corte imperiale fino a che si spostò a Luòyáng, dove iniziò lo scavo di nuove grotte. Con il venir meno dell'appoggio della corte, qui rimase solo l'iniziativa di qualche mecenate che promosse una fase costruttiva finale caratterizzata da nicchie di piccole dimensioni, ben diverse da quelle monumentali della prima fase, avviata dal monaco Tan Yao, e della seconda, patrocinata dai monarchi.

Nonostante la religione fosse estranea alla dinastia Wei, fu tuttavia promossa fino a diventare religione di Stato perché la scuola del tempo identificava il sovrano ben disposto verso il buddismo con il Budda vivente. Quale migliore aiuto poteva giungere dalla religione per regnare saldamente su un popolo?

La tenera arenaria è perforata da grotte di varia grandezza, alcune sono piccole cappellette, altre gigantesche cavità occupate da impressionanti simulacri. Il tempo è stato nemico della conservazione del patrimonio, nonostante siano stati compiuti tentativi per riparare dalle intemperie le opere via via messe a nudo da pareti che crollavano. Le tre grotte più magnifiche sono schermate da belle strutture di legno a pagoda che risalgono al XVI sec. Con le travi di legno decorate e i colori sbiaditi dal tempo, sono esse stesse incantevoli opere d'arte.

Le sculture, impressionanti, sono scavate nella roccia, a volte modellate con argilla applicata per dare maggiore plasticità alle effigi. Le loro dimensioni sono variabilissime: si passa dalle minute statuette che ornano le pareti nelle cosiddette grotte dei mille Budda, alle colossali immagini che dominano lo spazio di altre grotte. Le cavità che hanno perso la parete di chiusura lasciano scoperta l'immagine sacra e la raffigurazione della beatitudine inonda il paesaggio e riempie l'animo di tranquillità. Singolari i colori tenui che ancora tingono molti rilievi e mettono in risalto i dettagli.

Al di fuori della zona archeologica sono in corso grandi lavori di sistemazione. L'isolato di semplici abitazioni è stato ormai abbattuto per far posto all'industria del turismo. Ora c'è un bel parco, troppo fittamente piantato di piccoli alberi e stanno terminando i lavori su un immane centro di accoglienza che si alza dalle acque di un laghetto. La fattura dell'opera è decisamente buona, lo si vede dai materiali impiegati per replicare lo stile tradizionale, come il legno delle poderosi travi e la pietra naturale scolpita, ma la dimensione del complesso è preoccupante. Vedo i semi per uno sfruttamento spinto del sito come dimostra già l'alto prezzo del biglietto di ingresso. Cosa avverrà domani quando tutto sarà pronto?

Dovevano essere minatori che abitavano il quartiere degradato, perché Datong si trova in un importante bacino carbonifero. Il colossale gruppo minerario di proprietà statale, il terzo della Cina, è pilastro dell'economia locale, ma anche preoccupante fonte di inquinamento. Si stima che Datong sia una delle città più inquinate, ma recentemente sta tentando di diversificare il reddito come testimoniano i lavori sulle attrazioni turistiche.

Una volta districatomi dalla grinfie di un quartiere di periferia dove mi rischiavo di perdere, raggiungo le strade del centro moderno, invaso da gente e negozi e indaffarato in lavori di recupero su edifici storici. Per fortuna che sulle strade si notano ancora sprazzi di naturalità, come quella bancarella che prepara una pizza gustosissima cosparsa di carne e cipolle tritate, cotta in un enorme forno su ruote; o i venditori  di frutta e fette di melone. I loro tratti centro asiatici e il copricapo musulmano indicano che appartengono all'etnia hui.

Raggiungo la stazione percorrendo in un'estenuante marcia viali senz'anima, come succede in generose fette di ogni città cinese che si rispetti. Code sterminate si assembrano davanti ai numerosi sportelli, ma devo prima decifrare i tabelloni per capire a che ora ci sarà un treno che mi lascerà a Huairen. Ho la sensazione di partire da un aeroporto.

Salgo sul convoglio delle 18, diretto a Xi'an. Non è la migliore presentazione per le ferrovie cinesi. L'affollamento che ingombrava la sala d'aspetto si è riversato sulle carrozze e mi trovo in piedi per 40 minuti osservando gente che mangia disperatamente minestre, brandisce pezzi di pollo come fossero trofei di caccia prima di azzannarli, mentre successivi passaggi del carrello delle vivande si aprono un cammino tra la gente che staziona nel corridoio, imbrattato di sozzura. Per godere maggiormente del movimento e della sporcizia sono inoltre incastrato in una posizione vicina al bagno. Per fortuna che i treni che ho preso in seguito si sono riscattati da questo quadro indegno.

Haoyu mi sta aspettando da più di mezz'ora per via del ritardo del treno. Andiamo a mangiare insieme e ancora una volta mi vuole invitare. Gli ho comprato una stecca di sigarette, ma sono costretto a nascondergliela in un armadio perché non la voleva accettare.