Arrivo in una metropoli tropicale

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Accovacciato in un angolo della cuccetta del treno che tra meno di un'ora lascerà Mumbai per Aurangabad, pregusto il sonno di cui sento molto bisogno. Sono così stanco che solo stare seduto senza tenere la mente occupata mi porta in uno stato di torpore e non riesco a controllare. Il viaggio con un lungo scalo ad Abu Dhabi e l'arrivo in India ancor prima dell'alba mi ha fatto praticamente attaccare due giornate di seguito, anche per effetto del fuso orario.

[Foto di viaggio]

Il clima mi rende appiccicaticcio, nonostante che l'aria condizionata attenui il calore e l'umidità esterni. Ma almeno in questo vagone c'è una tregua di tranquillità. L'affollata stazione CST ospitata in un roboante edificio coloniale è stata gremita dalle folle fin dal primo mattino, quando l'ho vista per la prima volta in provenienza dall'aeroporto.

Per iniziare l'esperienza indiana nel modo più diretto non ho preso il taxi, ma un treno, un treno di periferia dalla stazione suburbana di Andheri a cui sono arrivato in rickshaw dall'aeroporto. Da lì, è un viaggio di meno di un'ora fino al centro, in un treno fatto di pezzi di metallo rozzamente saldati insieme senza troppa attenzione al dettaglio, ma che dà impressione di grande solidità. Questo sarebbe lo scompartimento di prima classe, ma a parte la scritta all'esterno, non vedo differenza nella sua struttura rispetto ai restanti di seconda, che mi pento quasi di non aver scelto.

I blocchi delle porte non sono sofisticati meccanismi a scrocco, ma semplici fermi che ruotano su un perno e arrestano la porta sul lato dell'apertura. I ventilatori, nelle loro gabbie fatte di uno spesso reticolo, sembrano poveri carcerati dietro le sbarre. Spuntano a gruppi di tre e si dirigono in tutte le direzioni per irrorare sui passeggeri un filo d'aria, quando la stagione è calda. Maniglie di ferro pendenti affollano i tubi orizzontali a poca distanza dal soffitto e sembra una selva di metallo cresciuta disordinatamente che riprende l'idea della selva umana che qui si assiepa nelle ore di punta. Tutto mi fa anticipare le folle dell'India che fuori aspettano.

Le periferie che attraversiamo vivono quello stato di attività al buio che si nota in Europa nelle oscure ore d'inverno quando il sole tarda a sorgere. Ma qualcosa non quadra: questa bella temperatura, che riscalda e avvolge il paesaggio in una bruma sfumata, attraversata dalle luci elettriche. Nel giro di una decina di minuti il sole si alza e tutto si trasforma. Con la luce percepisco l'atmosfera della grande città che si stende attorno a una baia tropicale.

Ho passeggiato per le strade centrali di Colaba e di Churchgate, due distretti centrali, quelli della Bombay coloniale, per arrivare al famoso Gateway of India, che riassume in un monumento il grandioso disegno che gli inglesi vedevano nello sforzo coloniale, tutto il lustro che vollero dare al progetto di sfruttamento, quando era ormai diventato ben più di una semplice dipendenza della madre patria.

Gli edifici che bordano queste strade riassumono con il loro stile maestoso o mastodontico la nuova lunga era che si aprì e si chiuse con la dominazione inglese e rimanda ai legami che ancora oggi questi paesi esprimono in molti campi, da quello culturale a quello ovviamente economico. Bombay rappresentava il coronamento della potenza coloniale britannica, l'apoteosi del white man's burden e rimanda ancor oggi a un passato di sfruttamento senza scrupoli, ma anche di progresso, nella misura in cui questo era funzionale al migliore governo del territorio.

ImageNumerosi edifici piuttosto austeri, di forme neogotiche miste di ispirazioni orientali, di pietre scure un po' cupe, dalla decorazione a volte quasi medievale, sono un ponte tra l'Europa e l'India. Un ponte che si è aperto secoli fa e che vive tuttora, mantenendo gli appartenenti del ceto alto e di certi ambienti alla moda in bilico tra due paesi e due identità.

Meglio farei a dire a cavallo dell'identità anglo-indiana, perché se agli occhi di chi come me proviene da una cultura mononazionale e monolingue, questa appare un disdicevole ibrido di culture, qui è vissuta in modo del tutto pacifico come l'unica irrinunciabile identità di chi decide di muoversi nel mondo alla moda, quello che si muove alla velocità superiore. Ma non è la mia scelta parteciparvi, né tanto meno lo sarà qui in India.

Bombay e Mumbai sono i due volti di una città che si riscontrano nel suo aspetto odierno a 60 anni dall'indipendenza. Sarebbe bello studiare i luoghi, i visi della gente che ne raccontano l'anima, molteplici aspetti, così infiniti da creare confusione con le loro mille storie e mille percorsi. Un bel prato in cui tanti giovani giocano a cricket o si divertono all'aria aperta mi ha distratto da questo proposito e ho schiacciato un pisolino, svegliato presto da qualcuno che mi avvertiva di fare attenzione alla borsa. Ho appena aperto un occhio per sentire cosa volesse e sono andato avanti a riposare.

Sono di ritorno alla stazione per il treno delle 16.20. Il ronzio delle enormi pale ventilatrici sembra quello di gigantesche libellule meccaniche sospese in aria che frullano con le loro ali coriacee sotto la tettoia. Guardando verso l'alto vedo le esili colonne di ghisa che la sostengono, raccordate al tetto da fregi floreali; la sala della biglietteria ha navate coronate da volte ogivali. Hanno costruito una mirabile cattedrale, un tempio all'opera ferroviaria che rappresentava il controllo del paese e il progresso della colonizzazione, un sigillo sacro per giustificare e mantenere la presenza.

Intorno a me il solito viavai di corpi in movimento, la foresta di corpi in piedi, la distesa di altri distesi, file ancora di altri seduti in attesa: il caratteristico scenario di una stazione indiana.

Sul treno salgo con anticipo rispetto all'ora di partenza e mi allestisco lo spazio nel quale spero di potermi finalmente rilassare. Ma dopo la partenza, i miei compagni di scompartimento non si distinguono per riservatezza. Un paio di bambini scherzano gridando a squarciagola. Nel mio sfinimento sprofondo in uno stato di dormiveglia, ma quando mi sento disturbato da questo baccano che sempre più mi batte nelle orecchie, decido di farmi sentire. Tiro d'improvviso la tenda della cuccetta dietro cui mi sono appartato e li richiamo severamente di stare tranquilli. Il bimbo è sorpreso da questa mia inaspettata entrata in scena e per qualche minuto si calma intimorito. Ma prestissimo riprende l'andazzo di prima, anzi con più entusiasmo, se possibile.

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Poi passa il controllore, un uomo che porta una calotta bianca di pizzo e una barba tinta all'henné di un bell'arancione acceso. La lista dei passeggeri era già stata affissa all'esterno della carrozza; ora avviene la verifica del foglio di prenotazione. Quando tutto quadra, posso tornare a riposare.

Per questo viaggio di inaugurazione ho scelto una classe superiore e lo scompartimento non è affollato. A parte i bambini, ci sono altre otto persone, diverse per abbigliamento, turbanti, colori, fisionomie e forse anche etnia. Alcuni stanno mangiando, scodellando curry di verdure in altrettanti scomparti del vassoio di plastica che hanno portato da casa.

Molti sono sikh e stanno andando a Nandad dove si trova un loro tempio importante. Hanno davanti tre giorni di festa e hanno riempito molti posti di questo treno per il pellegrinaggio. È il primo esempio di molti che troverò in questa terra della ricerca dell'ultraterreno, dove la gente si sottopone a lunghi e faticosi spostamenti per andare a trovare la divinità in un determinato posto, ma anche durante l'esperienza stessa di viaggio, parte essenziale del pellegrinaggio, che precede la visita al santuario e la separa dalla quotidiana tramite un distacco nel tempo e nello spazio.

Il convoglio si ferma due protratte soste lungo la marcia per dare precedenza ad altri treni e in totale accumula quasi un'ora di ritardo. Arrivo alle 12.30 e devo iniziare una penosa ricerca di un albergo. Oltre al problema dell'orario, si aggiunge un congresso di medici e il lungo fine settimana che ha già riempito praticamente tutto. Ne passo almeno sette, prima di ripiegare su una soluzione di salvataggio. Un albergo mi accoglie in una cabina del seminterrato. Sono stanco e chiudo gli occhi davanti al corridoio fiocamente illuminato in cui si ergono i divisori di ferro di squallide cabine disabitate.

In alcune, attraverso la porta aperta, si vedono cianfrusaglie accatastate, materassi in disordine, ma nonostante l'ambiente poco invitante, ho solo da aspettare qualche minuto per prendere sonno. Almeno ho trovato un posto dove dormire, ora che sono le 2 di notte.