La casa dello sceicco

Scendo a piedi a Manakha, poi in auto a Maghraba e da qui mi prende un camion per arrivare a Bajel dove ho appuntamento con Géraldine e Sarah. Credevo che Bajel si trovasse a breve distanza dal passo, ma la discesa è infinita. Quello che credevo un paesino di montagna, nell'aria fresca dell'altitudine, è in realtà un grande centro di pianura che raggiungiamo dopo un viaggio di ben un'ora e mezzo. Sono tornato nel soffocante e brumoso calore della Tihama e mi toccherà aspettare qui tre lunghe ore perché telefonando a Géraldine ho saputo che sono partite da Sanaa con ampio ritardo.

Intanto ho chiesto informazioni sul trasporto a Jabal Milhan dove vogliamo andare, nella speranza di potermene andare da qui quanto prima, ma dicono che l'auto partirà verso le 15, quindi avremo il tempo di ritrovarci e partire insieme. Nel frattempo mi stuferò in questa temperatura impressionante. Arrivano ondate di polvere sospinte da un calore che fa sudare anche stando immobili nell'ombra, segno che la temperatura deve essere vicina ai 40°. Gli oggetti di metallo sembrano scottare.

Vado al mercato a comprarmi un paio di calze, ma non resisto a lungo passeggiando e torno verso il punto di partenza della jeep per sedermi davanti all'equivoca locanda dove masticatori di qat sono indolentemente distesi su reti di metallo senza materasso. Mi portano un cuscino e una coperta sudici per mia comodità. Entrano ed escono donne velate, con tutta probabilità prostitute.

Alle 16 uno dei due ragazzi mi fa un cenno come per avvertirmi di una novità e girandomi vedo Géraldine e Sarah, con molto piacere dopo questa lunga attesa. È una bella sorpresa perché mi aspettavo di vederle arrivare dall'altra parte! Le due ragazze sono stravolte dopo lo scomodo viaggio da Sanaa, ma mi portano una ventata di freschezza con la loro carnagione bianca, l'abbigliamento di colori chiari, un bel sorriso di saluto e nessun velo!

Géraldine ci tranquillizza sulla precauzione che ha preso contro le pulci che talora infestano le case della gente di montagna presso cui intendiamo appoggiarci: ha un prodotto specifico. Siamo ormai imbarcati in una nuova avventura!

Prendiamo accordi con l'autista, ma non si parte prima delle 17. Ci aspettiamo un breve tragitto, ma ho un presentimento che deriva dal ricordo di tutta la distanza percorsa stamattina scendendo dalle montagne alla valle. Considero che la distanza dovrà essere altrettanta per risalire a una certa altezza, dato che qui ci troviamo nella bassa pianura costiera. Ma le nostre peggiori previsioni sono ancora ben lontane dalla realtà.

Vengono caricati a bordo del cassone diversi sacchi di farina. Sopra siedono o stanno semisdraiati alcuni passeggeri e noi occupiamo la piccola fetta rimasta all'estremità del veicolo. Ci mettiamo in marcia e attraversiamo ampi spazi di campi ingialliti con radi alberi di acacia – sembra una savana, nella luce del tramonto – delimitati da brumosi contorni di montagne in lontananza. Facciamo una rapida sosta in un villaggio dove la folla si assembla intorno alla Toyota. Sono curiosi e stupiti di vederci, tanto quanto noi lo siamo di essere in questo mondo fuori da ogni rotta battuta. Ogni momento sarà sempre più così in questo nostro fine settimana sulle montagne.

Inizia la salita verso la montagna e l'auto si ferma davanti a un bivio. Dopo una probabile discussione in cabina di cui non siamo partecipi, l'autista prende sulla sinistra una pista rocciosa. L'auto arranca, carica com'è di materiali e di persone, e procediamo a poco più del passo d'uomo per parecchio tempo, alzandoci traballanti sopra precipizi poco rassicuranti e nella semioscurità della prima notte.

Per quanto fioca, la luce ci permette di vedere il fondo valle che si allontana sempre più oltre il ciglio della pista, in una caduta quasi verticale. Siamo nervosi, ma gli altri incuranti si fanno gioco della nostra insicurezza. Dall'alto del cassone osserviamo il fianco della montagna buttarsi ripidissimo verso il fondo della valle, con uno stretto bordo di strada che ci separa da quel baratro, mentre la pista fa dondolare il mezzo senza sosta.

Ora è caduta la notte, ma anche sotto il barlume incerto della mezzaluna si capisce che è una strada maledetta. Ci fermiamo dopo forse mezz'ora di salita estenuante per il motore che risulta surriscaldato e dobbiamo lasciarlo raffreddare. Poi ripartiamo. Le rampe sono a tratti incredibili per la straordinaria pendenza e il veicolo sobbalza in continuazione.

Siamo incastrati tra la ruota di scorta e i sacchi. Una corda tesa delimita e trattiene il carico nella prima metà del cassone, ma se questa cedesse la pendenza farebbe rovinare il carico di merce e di uomini su di noi che stiamo incollati alla sponda.

Qualcuno dice che arriveremo alle 22 o anche dopo, ma liquidiamo la notizia come un sicuro scherzo. Ci hanno visto paurosi e vogliono burlarsi di noi, pensiamo. Un'altra sosta dell'auto: il motore è di nuovo surriscaldato e non mi sorprende. Anzi mi stupisce che un mezzo, e così carico, sia in grado di arrampicarsi per questi dislivelli. A questa pausa io, Géraldine e un passeggero ci incamminiamo sulla salita buia perché stiamo nell'ombra della montagna. Lui è un mercante di qat e ci chiede dove andremo a dormire stanotte, poi ci invita gentilmente a casa sua.

Saliamo a piedi un bel pezzo e ci rendiamo più conto della forte salita e dello stato della strada coperta di pietre grosse e sconnesse. Anche se non è più la temperatura della pianura, sudiamo nel caldo umido della notte. L'auto ci riprende alcuni faticosi tornanti più in su e l'ora avanza. Capiamo che l'ora annunciata non era proprio uno scherzo.

A un certo punto ci invitano a scendere perché il motore non ce la fa più. Bisogna camminare e così facciamo per forse mezz'ora, poi risaliamo a bordo ma già vediamo la massa di case di Beni Hajjaj abbondantemente illuminate al contrario di tanti altri villaggi che ci venivano via via additati lungo la strada ma senza elettricità e senza volto durante la notte. E' la ricchezza del qat, siamo qui nel suo regno.

Al paese dobbiamo decidere se proseguire la strada per accettare l'invito del giovane che abita ancora più su per la montagna o se rimanere qui. La stanchezza di ben cinque ore d'auto nel cassone, l'ora tarda, ma forse più di tutto il desiderio di non sfidare troppo il destino su questa strada del diavolo ci fanno scegliere di stare qui. Ci dicono di andare dallo sheikh (lo sceicco che è il capo del villaggio) che ci ospiterà per la notte. Veniamo quindi condotti alla sua imponente casa torre di pietra e siamo introdotti per la bassa porta, poi attraverso passaggi contorti che diventano una stretta scala. Senza che possa prepararmi, mi trovo improvvisamente nel mafraj dove una dozzina di uomini inebetiti dal qat sono intenti a masticare senza dirsi grandi parole.

Sulla parete a un lato campeggiano due enormi cartelloni identici che ritraggono il presidente. Al centro della stanza oblunga troneggia un enorme narghilè da cui parte un lungo tubo foderato di velluto che come un serpente si avvolge e porta il fumo di volta in volta a ciascuno dei convenuti. Un personaggio strano, con una folta barbetta bianca al mento, rimanendo disteso sul suo cuscino all'estremità della stanza, tenta maldestramente di riabbottonarsi la camicia per la presenza delle ragazze, ma i suoi torpidi movimenti non raggiungono lo scopo e si accontenta di sovrapporre i due lembi. Un uomo molto anziano, che inizialmente credo essere lo sheikh, rivolge uno sguardo assente davanti a sé e si fa ripetere all'orecchio alcune frasi che pronunciamo. In fondo all'altro lato sono raggruppati tutti i giovani. Le guance di tutti sono rigonfie di foglie.

La sporca moquette verde è disseminata di foglie e rami spelacchiati, la televisione è accesa, ma nessuno sembra seguirla. Ci vengono rivolte domande sparse, ma non si avvias una conversazione che possa definirsi di cortesia. L'atmosfera che regna è sospesa nel tempo diluito e irreale della loro mente offuscata, nel fumo del tabacco, nella stanchezza dei nostri corpi, nella notte di questa montagna.

Sembra la corte di un feudatario, all'ombra dell'immagine del re appesa alla parete. Lo sheikh è l'uomo forte della zona. Prima di sedermi faccio un giro della stanza stringendo la mano a tutti. Presto le ragazze vengono introdotte nei quartieri delle donne, mentre io rimango a rispondere a qualche ulteriore scarsa domanda e a scambiare sguardi incuriositi con i presenti, facendo passare in rassegna tutti i personaggi schierati davanti a me.

Poi mi fanno salire al mafraj al piano superiore accompagnato dallo sheikh. Ci portano qualcosa da mangiare, ma non tardiamo ad andare a letto, perché domani abbiamo un intenso programma di marcia da seguire. Il bagno non ha acqua corrente, ma una tanica; abbiamo materassi per terra e ci sentiamo accomodati come dei pascià in questa stanza dalle pareti decorate e cariche di armi bianche e da fuoco appese tutt'intorno.