La traversata dell'Elborz a piedi

Image23 agosto. Alle 7.30 parte il pulmino che scende fino all'incrocio. Lì ne arriva subito un altro che sale fino a Garmarud. Entriamo in trattative con il negoziante del villaggio, che sarebbe in grado di procurarci un mulo, ma chiede una cifra esosa, oltre che impossibile per noi che siamo alla soglia della povertà.

Troviamo però una soluzione accettabile perché passa una jeep diretta alle montagne e gli diamo 50.000 riyal per portarci il bagaglio fino a Pichebon. Compriamo un po' di pane perché stanotte non sappiamo se avremo da mangiare né dove dormiremo. L'unico punto fermo è un caravanserraglio abbandonato oltre Pichebon dove potremmo alloggiare e sarebbe l'ideale per spezzare in due tappe il cammino di due giorni.

Iniziamo a salire per la valle stretta, lungo la strada sterrata che guadagna altitudine per dominare il panorama. Arriviamo dopo tre ore di salita alla distesa di campi coltivati che forma un pianoro verde. È Pichebon. Sono le 12.30 e siamo stanchi perché l'ascesa è stata dura e l'abbiamo affrontata con passo sostenuto. Ci buttiamo su un prato dietro le case di fango intramezzate di ruscelli e alberi che danno ombra fresca, soprattutto a questa altitudine che deve essere vicina ai 3000 m. Abbiamo già ritirato il bagaglio che si trovava nella casa con l'unico telefono pubblico del paese.

Abbiamo avuto tuttavia un'antipatica sorpresa. Per portare avanti il bagaglio, alcuni giovani in moto ci hanno chiesto una cifra assurda. Non possiamo proprio permettercela, oltre ad essere spropositata. Siamo delusi e scornati nel nostro ottimismo, pronti a tornare indietro stasera, ma temporeggiamo. È un peccato essere arrivati fino a qui e doversi dichiarare sconfitti. Ci mettiamo a mangiare qualcosa sul prato all'ombra dei pioppi che frusciano nel vento. È una brezza che soffia sempre più forte e anche il cielo, che già stamattina era coperto dai cirri a pecorelle, si sta rimescolando in modo preoccupante.

Una signora ci fa segno di mangiare da lei, ma non siamo sicuri di interpretare correttamente il messaggio. Con un gesto grottesco, mette un dito nella bocca per indicare cibo, poi indica le gambe per indicare la carne e arriva addirittura a scoprirsi un ginocchio grassoccio mentre pronuncia la parola "gusht", carne. Ci vuol far capire che abbiamo bisogno di nutrimento per lo sforzo che stiamo compiendo, poi con l'indice e il pollice che si sfregano indica soldi. La sostanza è che ci può vendere un pasto, ma abbiamo già delle provviste e con l'esperienza del bagaglio, abbiamo l'impressione di essere dei indifesi nella necessità circondati da gente pronta ad approfittarsi. Meglio non rischiare.

Un ragazzino ascolta con comprensione il nostro caso che gli spieghiamo alla bell'e meglio. Questa sera, intorno alle 5 - ci informa - dovrebbe passare un savari per Maran. Ma avremo capito bene? Sarà vero? Decidiamo di aspettare. Se, nella peggiore delle ipotesi, non si potrà continuare la strada, cercheremo ospitalità in questo villaggio. Dopo tutto non ci possono lasciare qui all'aperto sotto un cielo che si sta sempre più rannuvolando e non promette niente di buono…

Aspettiamo nell'incertezza, perdendo le preziose ore di luce che passano inesorabilmente. Alle 16.45 arriva sparata una jeep che riesco a fermare giusto in tempo agitando un braccio dal prato. In fretta e furia l'autista, lo stesso di stamattina, prende i bagagli e dice che li lascerà a Maran presso una persona di cui ci lascia il nome. Ci possiamo finalmente mettere in marcia, ma a passo disperato perché abbiamo perso troppo tempo e non sappiamo nemmeno dove andremo a dormire.

Quel giovane diceva che nel caravanserraglio non c'è acqua. Potrebbe fungere da tetto per la notte, ma a questa altitudine ho paura del freddo. Con andatura frenetica, saliamo di parecchio mentre il cielo si fa minaccioso e scuro. Del caravanserraglio non c'è traccia e pensiamo addirittura di averlo passato inavvertitamente. Sennonché, quasi giunti al passo, ce lo troviamo all'improvviso davanti agli occhi. Il vento soffia violento sulla sella tra le due vallate; al di là si vede un panorama nuovo: una lunga valle con il fondo coperto di nebbie e si avvistano minuscole case molto sotto. Ce la faremo ad arrivare lì prima della notte? Sono scettico.

Nel caravanserraglio rimangono resti di bivacco sulla terra battuta del pavimento. Non ci sono porte e il vento fischia entrando tra i muri di nuda pietra. L'ultima stanza ha un letto a piattaforma di legno, ma qui si gelerà sicuramente di notte e io non ho che una giacchetta che mi ha prestato César e un sacco a pelo leggero.

César è ottimista, dice che arriveremo al paese in mezz'ora ma per me è un grosso errore di valutazione. Poi guardo il cielo e non ci vedo nessun presagio positivo. È livido e fa paura. Sono ormai le 18.20 e dovremo fare praticamente una corsa contro la luce, tuttavia mi lascio convincere e ci mettiamo di nuovo in marcia.

A mezz'ora dal passo vedo abbattersi dal cielo livido un primo fulmine che mi gela il sangue nelle vene. L'altitudine ci fa essere vicinissimi a queste nuvole di tempesta. A pochi secondi di distanza scoppia il boato del tuono, agghiacciante. In un attimo una raffica di vento carica di pioggia mi investe dal dietro come fosse una secchiata d'acqua nella schiena. Non c'è assolutamente nulla dove ripararci. Vorrei tanto tornare indietro al caravanserraglio, ma César insiste per continuare.

ImageAndiamo avanti ancora un po' e il temporale sembra spostarsi, ma per riprendere in seguito con altra acqua e nuovi fulmini. Il temporale è un'esperienza terrorizzante che fa sentire l'uomo fragile e in balia di un fenomeno tanto normale quali sono le intemperie. Ora è César che vorrebbe tornare indietro, ma io, a un'ora di distanza dal caravanserraglio, penso che una ritirata non sia più proponibile: mi mostro molto deciso per continuare e stavolta è lui che mi segue.

Passata questa prova, riprendiamo animo. Ora si tratta di scendere in tempo al villaggio prima della notte, con la minaccia sempre costante delle nuvole nere che si addensano e si disperdono, si muovono in continuazione sospinte dai forti venti. Il solo dissiparsi della tensione è sufficiente per farmi uscire un canto dalla bocca, ma non so se è perché mi sento davvero sollevato o voglio sfogarmi. Probabilmente tento solo di illudermi di aver superato definitivamente la difficoltà, ma sopra di noi si stanno riformando altre nuvole nere sospinte dal vento e tutto sembra molto incerto.  La strada è ancora lunga e il sole cala.

Scendendo i tornanti, ci avviciniamo sempre più alle poche case del villaggio, a cui arriviamo alle 20. Sono passate quasi due ore di marcia dal caravanserraglio. Salutiamo alcuni giovani e chiediamo subito se ci sia posto per dormire: "Sarebbe possibile passare la notte nella moschea?". Ci fanno strada verso la casa di uno di loro. È un'abitazione di fango, a un piano solo. Entrando scalzi ci attende una stanza accogliente interamente coperta di tappeti rossi. Il temporale che ci ha insidiato sembra ormai fuori per sempre e noi riparati in questo rifugio per la notte.

Siamo stanchi. L'unica cosa che vorremmo fare è dormire, ma siamo obbligati a onorare l'ospitalità con la compagnia. Avremmo ancora delle provviste per sfamarci, ma la madre ci porta una cena di spaghetti, aglio ed erbe con yogurt. Ceniamo con Reza, suo fratello Ali e il cugino Ni'mat. Le donne sono appartate in una stanza accanto. Vivono a Todekabon ma tornano al villaggio natale per l'estate.

Ni'mat si comporta in modo strano, parla concitato e sembra perdere spesso il filo del discorso. Dopo cena porta una borsetta piena di medicine ed estrae un flacone. Quando sento la parola metadone mi spiego molte cose. Racconta il suo passato: nove anni di eroina, poi metadone e altri tre ricaduto nel baratro della droga. Ora ne è uscito, ma la sua vita e il suo cervello sono devastati: ha avuto anche un incidente d'auto che gli ha fatto perdere i denti e una frattura mal riparata gli dà dolori alla gamba. La sua famiglia è distrutta, i figli lasciati alle spalle. Non so come prenderlo, ma Reza è simpatico e ride ogni tanto delle stranezze del cugino.

Nell'altra stanza si sono coricati tutti ma noi ci attardiamo fino a mezzanotte in cucina attorno al focolare spento, mentre il getto che cade nell'acquaio suona una musica pacata, interrotta solo dallo sbuffo di qualche bolla d'aria che esce del tubo. Quando finalmente giunge l'ora di dormire, stendiamo i materassini sui tappeti rossi e dormiamo sonni tranquilli. Ni'mat si mette gli auricolari con la musica e dorme così tutta la notte.